Scrivere, oggi, una nota in ricordo di Massimo Bontempelli mi è possibile soltanto perché sono ancora in quella sorta di limbo emotivo che da un lato consente di registrare mentalmente l’incredibile notizia della sua scomparsa, dall’altro non consente ancora, per quanto mi riguarda, di cogliere per intero la smisurata voragine che mi si è aperta dentro. Parlare con distacco della sua vita mi è impossibile, perché la sua vita è stata anche la mia.
Trent’anni fa, quando in questo Paese si facevano ancora i concorsi pubblici per accedere alla professione insegnante, era necessario studiare e approfondire i contenuti di esame. Conobbi Massimo in occasione di una serie di lezioni da lui tenute a questo scopo. Mi riconosco un merito: dopo poche lezioni compresi subito di trovarmi di fronte a un personaggio eccezionale di cui intuivo una profondità di pensiero che corrispondeva a quello che con passione cercavo nella filosofia. Da quel momento nacque un sodalizio culturale che avrebbe costituito uno degli assi portanti della mia esistenza, non solo professionale.
Le sue analisi storiche, filosofiche, sociali, anche nelle loro punte di massima astrazione, finiscono sempre per dare fondamento teorico a un impegno politico teso ad affermare il valore irrinunciabile della giustizia. Massimo ha scritto pagine e opere memorabili su questo e su tanti altri temi, e fatico a contenere la mia indignazione nel vedere come i suoi scritti siano stati colpevolmente ignorati dai circuiti ufficiali della cultura. Ma quegli scritti sono lì e devono essere raccolti, ordinati, letti e discussi per rendersi conto del posto che Massimo deve occupare nel panorama della cultura italiana, e per rendersi conto di come in un mondo di intellettuali di cartapesta esistano ancora potenti testimonianze di rigore culturale, di onestà e amore della verità. E forse è proprio questo che rendeva Massimo un intellettuale scomodo, ma scomodo davvero, temuto dagli apparati: perché ci si trovava di fronte ad un’intelligenza straordinaria non disponibile ad essere piegata ad alcun interesse particolare, perché Massimo quell’intelligenza l’ha messa al servizio dell’essenza della filosofia, cioè dell’amore per la verità e quindi dell’amore per la giustizia, al di fuori di qualsiasi convenienza, al di fuori di qualsiasi appartenenza politico-identitaria. In trent’anni mai una volta che abbia ceduto di un millimetro quando in gioco c’era il valore della coerenza intellettuale. In trent’anni mai una volta che lo abbia visto cedere anche lontanamente alla malattia del narcisimo; mai una volta che abbia privilegiato la convenienza, spesso anche strameritata, all’amicizia e al valore dei rapporti umani. E poi, soprattutto, ha commesso un reato oggi insopportabile: nessuno scarto tra le sue idee scritte e la sua vita pratica. Un intellettuale con le sue doti avrebbe potuto anche senza grandi compromessi occupare posti di privilegio e cattedre importanti. Massimo Bontempelli ha dato tanto, tantissimo, a chiunque gli si avvicinasse con desiderio di conoscenza, in una misura che è difficile poter anche immaginare. Ci ha insegnato con la semplicità della sua vita, con la sua incredibile disponibilità, con la sua umanità che davvero un altro mondo è possibile. Ciascuno di noi, in coscienza, se vuole ricordare Massimo, rifletta sul valore di questo suo insegnamento.
Fabio Bentivoglio
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