Pubblichiamo l'intervista che Filomena Maggino*, membro del Comitato Scientifico di Alternativa, ha rilasciato a Paolo Bartolini per il sito Megachip.
Benessere,
decrescita, felicità: concetti essenziali per un'alternativa reale al
pensiero unico della "crescita ad ogni costo". L'analisi del presente e
le sfide per il futuro. La qualità della vita e la "speranza di una vita
sana". La sfida della complessità presente come occasione per agire un
cambiamento radicale della nostra società e porre le basi di una vita
migliore per i suoi cittadini.
Professoressa
Maggino, la crisi dei debiti sovrani sta conducendo, mediante le
politiche di austerità imposte ai governi europei dai grandi centri
finanziari internazionali, all’aggressione dei diritti sociali e del
lavoro di moltissimi cittadini. Tuttavia non si intravede una risposta
collettiva di contrasto a queste misure. Secondo lei a cosa è dovuta
questa sorta di diffusa rassegnazione?
Esiste
senza dubbio un movimento di protesta diffuso, anche se non emerge in
maniera unitaria e organizzata. Ciò rivela indubbiamente la presenza di
una sorta di rassegnazione che secondo me è spiegabile soprattutto se
osserviamo quanto è successo e sta succedendo in due settori chiave:
- l’informazione,
in quanto detiene una narrazione volutamente falsa e/o distorta
finalizzata a creare una visione non aderente alla realtà e un consenso
su decisioni prese altrove; tale situazione è percepibile in Italia (e
attribuibile non solo alla situazione che si è venuta a determinare
durante il ventennio che abbiamo appena trascorso) ma è riscontrabile a
livello internazionale (si pensi a tale proposito all’episodio nel quale
è stato coinvolto il Presidente della repubblica tedesca e il suo
tentativo di mettere a tacere la stampa su alcune non proprio legittime
questioni che lo riguardavano)
- la formazione,
la scuola e l’università destrutturate e depotenziate e relegate a
semplici “produttori” di forza lavoro e non di cittadini capaci di
leggere la realtà ed elaborare proprie interpretazioni. Tutto il
dibattito intorno a questo settore vitale della società è ridotto a
semplici questioni tecniche/tecnologiche (introduzione della lavagna
multimediale, del tablet, e così via). Pensando di poter introdurre
anche tutte le innovazioni tecnologiche multi-mediali nel processo
formativo non avremmo assolutamente risolto la questione, ovvero quella
di avere agenzie formative in grado di formare i futuri cittadini. La
formazione nelle nostre società si è spostata in gran parte dalla
famiglia e dalla scuola ad altri canali (“agenzie” formative), quali i
mass-media (televisioni, ma anche video-giochi, cellulari, …), che
condizionano linguaggi, contenuti e formazione delle menti e delle
coscienze degli individui.
Un discorso a parte meriterebbe la rete
nella quale confluiscono i due precedenti campi sia in senso positivo,
in quanto prospetta l’apertura di nuovi spazi dedicati a contenuti
culturali nuovi e innovative forme di comunicazione e di reperimento di
informazioni da più fonti, sia in senso negativo, in quanto contiene
potentissimi elementi sia di controllo dei comportamenti individuali che
di formazione delle menti (frammentazione della strutturazione del
pensiero)[1].
Tutto
questo contribuisce a spiegare come mai i movimenti non riescano
davvero ad incidere sulla realtà in maniera efficace, stimolando anche
consenso.
Lei
si occupa da anni della definizione e della misurazione del benessere
sociale e relazionale. Quali sono, a suo avviso, gli indicatori più
trascurati nell’odierno dibattito su questi temi?
Sarei
tentata di dire “tutti” in quanto il dibattito e anche le decisioni
governative sono ancora concentrate su un unico criterio, che è quello
della crescita, e su un unico approccio alla sua misura, ovvero il PIL.
Sono
decenni che oramai centinaia di studiosi stanno suggerendo che è
necessario cambiare paradigma concettuale, passando conseguentemente da
misure di quantità (come il PIL, ma non solo) a misure di qualità.
In questo processo di ridefinizione è necessario coinvolgere concetti
quali la qualità della vita, la coesione economica e sociale, l’equità,
la sostenibilità, nei loro aspetti sia oggettivi che soggettivi (in
termini di percezione degli individui).
Dopo l’individuazione dei concetti, occorre individuare i segmenti della realtà in cui osservare tali concetti, i cosiddetti domini, o ambiti (salute, famiglia, lavoro, istruzione, ambiente, …)
Successivamente, occorre sviluppare quegli strumenti tecnici (gli indicatori)
con l’obiettivo di informare i cittadini sullo stato del Paese e della
comunità ma anche di orientare le decisioni politiche verso obiettivi
diversi.
In
una tavola rotonda cui partecipai qualche mese fa, un amministratore
locale (anche molto apprezzato e apprezzabile per il suo impegno
nell’utilizzazione di un nuovi concetti e conseguentemente indicatori
per le proprie scelte) affermava come era importante che il suo operato
fosse giudicato per le decisioni riguardanti non più solo indicatori
economici – legati al concetto di crescita – ma anche, per esempio,
indicatori riguardanti i servizi sanitari (quanti servizi sanitari
riesce ad organizzare o quanti ospedali è riuscito a costruire). Gli
feci notare che se vogliamo veramente cambiare paradigma, l’operato di
un amministratore dovrà essere giudicato invece da quante persone sane
vivono sul suo territorio. Un tale cambiamento obbligherebbe
quell’amministratore a dedicarsi a temi (e conseguentemente a prendere
decisioni) quali la qualità dell’aria, del cibo, ….
Paradossalmente,
l’amministratore dovrebbe poter comunicare come importante obiettivo
raggiunto la diminuzione del numero dei posti letto insieme all’aumento
della speranza di vita sana.
In questa nuova ottica, quale indicatore sceglierebbe tra “speranza di vita”[2] e “speranza di vita sana”?
Che
ruolo possono giocare secondo Lei le donne per diffondere nel corpo
vivo della società un’idea alternativa di benessere, diversa da quella
veicolata dai mass media e dalla cultura del consumo?
Io modificherei la questione: in che modo il femminile può diffondere un’idea alternativa di benessere.
Essere donna non garantisce che un’idea alternativa di benessere venga introdotta.
A
tale proposito, trovo piuttosto stucchevole, per esempio, il dibattito
sulle cosiddette “quote rosa”. Il ruolo all’interno delle istituzioni e
delle organizzazioni delle donne non dovrebbe essere stimolato e
incoraggiato attraverso la ipocrita definizione di quote. Una società
dovrebbe consentire a tutti di dare il proprio contributo, secondo le
proprie capacità e non secondo l’appartenenza ad un gruppo (sia esso
sociale o biologico).
Occorre
però dire che questa questione è particolarmente grave in Italia, a
tutti i livelli, non solo dirigenziale / manageriale ma anche nella
distribuzione delle attività.
Introdurre
il femminile nel dibattito di un’idea alternativa di benessere vuol
dire introdurre concetti che legano il benessere non [solo]
all’acquisizione di beni e servizi ma [anche] alle relazioni, alla
gestione armonica dei tempi di vita, ecc.
Noi
osserviamo la condizione della donna nella nostra società secondo
modelli e paradigmi (valori, oserei dire) tipicamente maschili. Qual è
la percentuale di donne tra i componenti dei consigli di
amministrazione? Qual è la percentuale di donne tra i professori
ordinari delle università italiane? Qualunque sia la risposta, essa
avvia un dibattito che lega questo dato ad un’idea maschile di società
(nel caso dei professori ordinari, potremmo, per esempio, mettere in
discussione, un tale criterio di distinzione tra i docenti universitari e
quindi individuare altri valori importanti per valorizzare la ricerca
universitaria).
Concetti
come “competitività” ed “efficienza” sono declinati a volte, per come
la vedo io, in maniera perversa. Per lavoro viaggio molto e cerco di
guardare i mondi che avvicino sempre con occhi critici. A volte mi
capita di assistere a scene che rappresentano veri e propri “indicatori”
di benessere/malessere di quei Paesi. In un mio recente viaggio in un
Paese scandinavo (invitata dal Governo di quel Paese a discutere proprio
di come definire e misurare il benessere) ho assistito alla
concretizzazione di quell’efficienza che tanto invidiamo loro e che,
nell’episodio particolare cui ho assistito, ha lasciato fuori da un
autobus una persona in carrozzella perché l’autobus non poteva ritardare
di pochi secondi: il sistema che consente di salire sul bus non
funzionava e nessuno ha accennato ad un benché minimo tentativo di
aiutare quella persona a salire. Secondo lei quella società (in cui si
registra, tra l’altro, uno dei più alti tassi di omicidi in Europa,
omicidi che avvengono in gran parte tra le pareti domestiche) che
destino potrà avere?
Pensa che la Decrescita possa essere “felice” e che rappresenti oggi una forza teorica e pratica adeguata per rilanciare la nostra qualità della vita?
Il
pensiero della decrescita non è ancora ben definito (anche nei termini)
ed è in fase evolutiva, anche dal punto di vista terminologico. Molti
purtroppo ancora associano il termine decrescita a quello di recessione.
La questione posta dal movimento che si richiama alla decrescita è
seria e anche condivisibile (e ci riferiamo alle proposte di Latouche e
Pallante).
Dal
punto di vista strettamente concettuale, porre l’accento sulla
decrescita vuol dire commettere però lo stesso errore fatto quando si è
messo al centro della decisione politica il criterio della crescita.
Concettualmente crescita
è un processo cui si è sempre associato un carattere positivo; l’errore
commesso è stato proprio quello di credere che avviare un processo
(economico) avrebbe portato benessere a tutti. Il cambiamento di
paradigma impone di condizionare i processi ad obbiettivi veri di
benessere equo, condiviso e sostenibile …
Ritengo
che l’aspetto positivo del pensiero della decrescita sia importante,
anche se non particolarmente innovativo; potremmo risalire ad Epicuro e
all’idea di frugalità e di sobrietà, di significato di vita intesa non
più come possesso (“avere”) ma come “essere”.
Interessante in questa prospettiva è il lavoro di Tim Jackson[3].
Vorrei sottolineare a questo punto anche un altro termine che si associa a decrescita, ovvero quello di felicità.
Il
concetto di “felicità” usato nel trattare questi temi è il più delle
volte deviante, formulato in maniera confusa e utilizzato
impropriamente.
Si
dovrebbe parlare, invece, di benessere soggettivo, concetto complesso e
multidimensionale che richiede una definizione e un conseguente sistema
di misurazione particolarmente sofisticato.
Quindi,
il mio messaggio aggiuntivo è anche quello di evitare (e diffidare di)
semplificazioni e banalizzazioni, che hanno spesso ridotto il dibattito
alla identificazione dell’indicatore da adottare in sostituzione del
PIL. Per evitare l’errore commesso nell’aver posto alla base della
valutazione del benessere della società un concetto legato ad un
processo (crescita) e una misura “piatta e semplificante” (PIL) occorre
accettare la sfida della complessità presente sia nei concetti che, conseguentemente, nelle misure.
In questa direzione si sta muovendo l’importante progetto BES (benessere equo e sostenibile) avviato congiuntamente dall’ISTAT e dal CNEL.
Tale
progetto si inquadra nel vivace dibattito internazionale sul cosiddetto
“superamento del PIL”, stimolato dalla diffusa convinzione che i
parametri sui quali valutare il progresso di una società non debbano
essere solo di carattere economico, ma anche sociale e ambientale,
corredati da misure di diseguaglianza e di sostenibilità. Tale progetto
prevede un comitato d’indirizzo –
composto da rappresentanze delle parti sociali e della società civile –
il cui compito è quello di sviluppare un approccio condiviso alla
misura del benessere equo e sostenibile (il Comitato ha iniziato i
lavori nell’aprile 2011) e da una commissione scientifica (di cui mi
onoro di far parte) composta da docenti universitari ed esperti che ha
il compito di selezionare e definire gli indicatori statistici più
appropriati per misurare i diversi domini identificati dal comitato
d’indirizzo, anche alla luce delle raccomandazioni internazionali (la
commissione scientifica ha avviato i suoi lavori nel maggio del 2011).
Gli indicatori dovranno essere di elevata qualità statistica e limitati
in termini numerici, così da favorire la comprensione anche ai non
esperti.
Rispetto
ad analoghe iniziative avviate in altri Paesi, il progetto italiano
presenta un alto valore generale in quanto non è stato avviato da un
soggetto (nel Regno Unito, per esempio, l’iniziativa ha coinvolto
direttamente il Governo) ma dalla comunità nel suo complesso, attraverso
le sue rappresentanze.
Tale
processo, proprio perché coinvolge molti soggetti, ha stimolato tutti i
partecipanti alla considerazione di aspetti “nuovi” nella misura del
benessere, come, tanto per fare un esempio, quello del “paesaggio”,
considerato uno degli elementi che definiscono il benessere del nostro
Paese (per maggiori informazioni: http://www.misuredelbenessere.it/index.php?id=38).
Le
domando, infine, se ritiene che la crisi che stiamo vivendo possa
schiudere nuove possibilità per modificare in profondità i nostri stili
di vita o se, al contrario, produrrà chiusura ed egoismo come normali
esiti dell’ideologia neoliberista e della sua antropologia centrata
sull’homo oeconomicus.
Ogni
crisi è una sfida al cambiamento soprattutto nel modo di pensare: la
logica ci sta dicendo che il vecchio modo di pensare e affrontare la
realtà ha condotto/prodotto la crisi; per uscirne occorre modificare /
superare / cambiare quel modo di pensare e agire. Le società che non
accetteranno la sfida al cambiamento sono destinate a soccombere.
*Membro del Comitato scientifico di Alternativa.
Filomena Maggino è Professore di Statistica Sociale dell’Università
degli Studi di Firenze, dove è responsabile scientifico del Laboratorio
di Statistica per la Ricerca Sociale ed Educativa (Lab-StaRSE).
Presidente dell’Associazione Italiana per gli Studi sulla Qualità della vita (AIQUAV)
President-Elect dell’International Society for Quality-of-Life Studies (ISQOLS)
Componente del gruppo che coordina il Global Project Research Network on Measuring the Progress (stabilito presso l’OCSE)
Componente della Commissione scientifica per la misura del benessere, costituita presso ISTAT nell’Aprile del 2011.
Collabora con l’ISTAT su temi di misura e analisi della qualità della vita.
Membro
di numerose associazioni internazionali, dei comitati editoriali di
molte riviste scientifiche internazionali. Ha ricoperto e ricopre
numerosi incarichi nell’ambito di congressi scientifici nazionali e
internazionali (presidente, session organizer, discussant, relatore
invitato, commissioni scientifiche).
Autore
di numerose pubblicazioni su questioni metodologiche riguardanti
principalmente la costruzione di indicatori per la misura, analisi e la
valutazione della qualità della vita.
Presso
l’Università di Firenze ha tenuto il primo insegnamento in Italia di
“Rilevazione e analisi statistica del dato soggettivo”.
[1] V. a tale proposito il recente libro “Internet ci rende stupidi” di Carr Nicholas:
http://www.lafeltrinelli.it/products/9788860303776/Internet_ci_rende_stupidi/Carr_Nicholas.html
http://www.lafeltrinelli.it/products/9788860303776/Internet_ci_rende_stupidi/Carr_Nicholas.html
[3] Tim Jackson, Prosperità senza crescita, 2009. http://www.tecalibri.info/J/JACKSON-T_prosperitaC.htm
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