La
Seconda Assemblea nazionale di Alternativa, di fatto il nostro secondo
Congresso, si svolge nel pieno di una crisi senza precedenti del paese
dalla nascita della Repubblica. Quando cominciammo, come Laboratorio
Politico, ne avevamo tracciato i contorni, dicendo che nascevamo anche
per costruire, appunto, un’Alternativa a quella crisi. Ma ciò che sta
accadendo indica sviluppi più accelerati, più drammatici, più gravi
perfino di quelli che noi indicammo allora, poco più d’un anno fa.
L’analisi era giusta , ma era al di sotto della realtà, sebbene ci fosse
chi la definiva troppo catastrofista.
L’intero
paese è in declino. Un declino assai più vasto e molteplice della
evidente caduta dell’economia. E’ un declino sociale, istituzionale, di
fiducia, morale. A cominciare dalla sfiducia della gente nei partiti
(solo il 4% dei cittadini ci crede); nel Parlamento (solo il 9%, quattro
punti meno di un anno fa). Ma è una sfiducia che travolge tutto e
tutti. Le banche nazionali, tutte ormai molto private, convincono solo
un cittadino su 7, quando dieci anni fa le banche erano ancora
istituzioni nelle quali un cittadino su 3 era disposto a mettere la mano
sul fuoco. Crollano, nei ratings popolari, più o meno con le
stesse percentuali, le istituzioni finanziarie europee e internazionali.
Non c’è ragione di piangere per questi dati che, anzi, rivelano un
livello di attenzione razionale di gran parte del pubblico, che in tal
modo si dimostra niente affatto addormentato.
L’Unione
Europea ha perso poi addirittura 16 punti rispetto al 2001, quando
entrò in vigore l’euro, e ora si colloca al 37%. Vuol dire che allora la
maggioranza degli italiani “credeva” nell’Europa. Magari era solo un
sintomo della sfiducia verso le istituzioni italiane, una specie di
speranza per una salvezza che veniva dall’esterno, dal “più grande”.
Adesso non crediamo più neppure nell’Europa. E, per questo, abbiamo
abbondanti ragioni.
In
generale, se si mettono in un fascio tutte le istituzioni politiche e di
governo, si scopre che l’indice di fiducia della popolazione italiana è
sceso, in soli cinque anni, dal 42 al 33%. Nove punti in meno (sono i
dati di una accurata indagine firmata Demos-La Repubblica) di cui
dobbiamo tenere conto, perché vengono confermati da una identica
tendenza che si vede mettendo insieme tutte le istituzioni economiche e
sociali, le imprese, i sindacati, le cooperative, nei cui confronti la
fiducia media dei cittadini è scesa di un uguale scalino del 9%, dal 35
al 26%. Discese parallele che - come rilevava Ilvo Diamanti - fanno
pensare, più che a un declino a una vera e propria recessione.
Ma la
cosa interessante, di cui dobbiamo ugualmente tenere conto (anzi da cui
dobbiamo partire) è che a questo crollo fa da contrappunto una forte
capacità di reazione della società, dal basso, dalle periferie, dal
popolo. Non è la rinuncia, l’abbandono, la resa, il dato generale.
Certo, in molti questi sentimenti esistono, e contano. Ma questo non
esaurisce il quadro, affatto! Al contrario si registrano numerosi,
diversificati, forti segnali di mobilitazione di risposta, di impegno,
di lotta, che zampillano da centinaia di focolai di resistenza. Le
proteste di moltiplicano in molte parti d’Italia, si fanno qua e là
rabbiose. Non solo non siamo di fronte all’acqua stagnante, ma a un
panorama di crescente ribellione, che lo Stato e le istituzioni non sono
in grado di fronteggiare.
Tuttavia
le centinaia di “corpo a corpo” che i gruppi sociali colpiti ingaggiano
con i poteri che, volta a volta, si trovano di fronte, nazionali o
periferici, categoriali o generali, raramente si risolvono. E si spiega
fin troppo bene perché. Il ribollire della “voragine” di cui parlammo a
Genova nel 2010, non trova una “maniglia” cui aggrapparsi. Ricordate da
dove partimmo: dalla individuazione della necessità di dare forma
organizzata, nazionale, coordinata, alla miriade di proteste. Partimmo
dalla cruda constatazione che in Italia, da tempo non esiste più
un’opposizione politica, e dalla necessità di costruirla. Uno dei
caratteri distintivi di Alternativa è stato, ed è, il rifiuto di ogni
commistione con la casta, con la classe politica. In questo sapevamo di
trovare alleati numerosi nella “voragine”. Ma abbiamo scoperto, in
questo primo anno di lavoro tra la gente, che nella “voragine” coesiste
anche una tenace ostilità contro ogni forma di organizzazione politica.
Cosa abbiamo trovato nella “voragine”
L’abbiamo
sperimentato con il tentativo di Uniti & diversi. E’ avvenuto, si
può dire, al punto più alto, con interlocutori dignitosi. Il Movimento
per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante; il Movimento per il Bene
Comune, di Fernando Rossi e di Monia Benini; il Movimento Zero, di
Massimo Fini; la Rete Piemontese dei Movimenti e delle Liste Civiche.
Un tratto di percorso comune siamo riusciti a farlo, giungendo perfino a
una assemblea nazionale, nel dicembre 2010, che pose unitariamente la
prima pietra di un edificio che avrebbe dovuto essere un “nuovo soggetto
politico”.
Il
documento fondativo che ne emerse, frutto di un reale lavoro comune e di
un reale convergenza, al quale Alternativa diede un contributo
decisivo, è probabilmente il punto più alto di quel tentativo. Conteneva
una serie di questioni basilari della nostra piattaforma generale di
idee: dalla decrescita, alla totale ostilità contro la guerra, alla
questione cruciale del ribaltamento dell’intero sistema radiotelevisivo,
alla difesa della Costituzione e dei diritti sociali e civili che essa
sottende, alla radicale riorganizzazione democratica delle istituzioni
del paese.
Eppure
abbiamo finito per scoprire che l’idea di un nuovo soggetto politico
unitario, che facesse da punto di riferimento per tanti movimenti
diversi, non esisteva in realtà. Ciascuno dei piccoli e piccolissimi
raggruppamenti non è riuscito a uscire dalla propria nicchia conviviale,
costringendoci alla fine a rinunciare al progetto. Abbiamo scoperto che
senza un effettivo insediamento sociale non si può andare da nessuna
parte. Tutti insieme ne abbiamo preso atto due mesi fa. Non abbiamo
litigato, siamo rimasti buoni amici; continua la collaborazione attiva
con la Rete Piemontese, al cui lavoro partecipiamo per le elezioni di
Rivalta, ma quella strada è risultata sbarrata, dicendoci al tempo
stesso che la questione della convergenza delle forze esistenti è
tutt’ora aperta e che, senza risolverla, non potremo fare i passi
successivi che ci attendono. Anche questo è uno dei temi della nostra
discussione congressuale che non possiamo trascurare.
Non
parlo della miriade di tentativi analoghi andati tutti variamente
falliti. Ad alcuni abbiamo partecipato; altri li abbiamo seguiti come
osservatori, ben sapendo che le prospettive sarebbero state magre o
nulle. La ragione di tutti questi flop non è organizzativa, è politica.
Derivano tutti, in maggiore o minore misura, da un errore fondamentale
di analisi: dall’illusione “retista”. Cioè dall’idea che sia possibile
costruire una democrazia rigorosamente senza rappresentanza, dove non
solo tutti si collocano “in cerchio”, alla stesso grado di condivisione,
allo stesso grado di influenza; dove non c’è gerarchia, non solo quella
di importanza, ma neppure quella di conoscenza, di sapere, di
specializzazione.
Chi sa
cosa significa organizzazione, sa anche che questo tipo di modello non
può produrre non solo alcuna reale decisione, ma nemmeno alcuna reale
democrazia. Perché una gerarchia di saperi, di abilità, di competenza -
e alla fine di sapienza demagogica - finisce sempre per imporsi, anche
sotto le forme di una parità fittizia. Fare chiarezza su questi punti,
dei quali si nutre abbondantemente, per esempio, Beppe Grillo, è uno dei
nostri compiti, sia operativi che teorici. Anche nei confronti di
Grillo, infatti, ogni tentativo fatto fino ad ora, di affrontare in
comune le battaglie, seppure i punti di convergenza esistano, è
naufragato nel più netto dei rifiuti. Restano le convergenze sempre
possibili. Ma da questo a un soggetto politico maturo c’è un oceano di
passaggi politici e culturali che devono essere compiuti.
I limiti insuperabili dell’antipolitica
Tutto
questo è parte della cosiddetta “antipolitica”, cioè di una sacrosanta
repulsione verso la classe politica, mista a sentimenti generici di
rivolta: il tutto in contenitorI che ospitaNO, insieme al grano, anche
il loglio dell’incultura, della semplificazione, della banalizzazione
dei problemi. La polemica e il disgusto - giustificato - verso i partiti
si coniugano con il rifiuto di ogni forma di organizzazione, si sposano
con l’analfabetismo storico e culturale, con l’esaltazione
dell’improvvisazione. Mai trovare qualcuno che abbia letto Gramsci per
esempio. Mai, o quasi mai, trovare qualcuno che, quando si parla di
democrazia, si spinga a dare un’occhiata alla Costituzione, e alla
storia dei modi con cui i diversi modelli di democrazia si sono formati.
Una
esaltazione, spesso del tutto acritica, della Rete come luogo della
libertà e della verità possibile, dove si mescolano, in un caleidoscopio
di confusioni sovrapposte, valanghe di semplificazioni e di illusioni,
dove apparentemente tutti sono uguali a tutti (mentre in realtà si
confrontano sempre gerarchie); tutti parlano con tutti (mentre in
realtà solo alcuni parlano con alcuni altri); tutti sono liberi (mentre
tutti sono strumenti della pubblicità e dei motori di ricerca); tutti
sono produttori di contenuti, ai quali viene messo a disposizione lo
strumento per diffonderli (dimenticando che non tutti i contenuti hanno
uguale livello di dignità e, soprattutto che non a tutti è data uguale
possibilità di diffusione). E si potrebbe continuare a lungo con
l’elencazione delle illusioni , prodotte e moltiplicate dai social
network, ormai divenuti così potenti e pervasivi da costituire strumenti
indispensabili anche per l’agire politico. Fino a divenire strumenti di
modificazione della geopolitica, delle strategie di conquista e di
dominio dei popoli, come s’è visto nella cosiddetta primavera araba.
Da qui
semplificazioni innumerevoli e impotenti, che spesso risentono di
influenze primitive provenienti da oltre oceano, dalle correnti New Age,
da afflussi diversificati di incerta ed eclettica origine nei quali è
difficile, quando non impossibile, mettere ordine. Il “movimentismo” è
stato l’esplicitarsi materiale di questa sommatoria tra protesta
giovanile, rabbia e assenza di esperienza di lotta e di organizzazione. A
sua volta alimentato dai media del potere, che si esaltano all’idea di
qualche cosa che si muove e sono pronti a osannarla, per poter impostare
titoli sensazionalistici, purché, e fino a che, non disturbi troppo il
manovratore. L’idea ossimorica, cioè , che sia possibile ottenere
risultati permanenti mediante forme di movimento e di lotta che, per la
loro stessa natura transitoria, non possono essere permanenti, “per la
contraddizion che nol consente”. Ricordiamo tutti, noi più anziani, quel
titolone del New York Times, che mise sullo stesso piano le due
“potenze” in campo, come equivalenti, alla vigilia della guerra contro
l’Iraq: i centri bellicisti, che organizzavano la guerra e il pur
grandissimo movimento pacifista che la respingeva. Ci fu chi ci
credette, che fossero sullo stesso piano. Invece non erano affatto
ugualmente potenti. La guerra ci fu e molti, tra quelli che ingenuamente
ci avevano creduto, caddero nello sconforto, e ci sono rimasti fino ad
ora. E non è bastata la guerra di Libia a farli risvegliare. Ecco, in
questo esempio sta tutto il problema che ancora abbiamo di fronte.
Matrix non è tutto
Che è
il grandissimo problema di introdurre una “cultura della politica” nella
“voragine”. E’ questione, però, assai diversa - riflettiamoci con
attenzione in questa nostra discussione di oggi - dall’indottrinamento
delle masse. In primo luogo perché in questa “voragine” non ci sono
soltanto masse da indottrinare. Milioni di individui, donne e uomini,
hanno già fatto un loro percorso culturale e intellettuale, si sono
sottratti a Matrix, hanno fatto pratica politica (anche se aborrono la
politica perfino come parola). Per essi il problema non è quello di
imparare a lottare, ma è quello di superare la “liquidità” della
protesta, di acquistare una visione d’insieme, un’interpretazione
complessiva della crisi, una capacità di misurare la velocità delle
trasformazioni, di vedere i pericoli che si stagliano all’orizzonte,
anche quelli apparentemente lontani.
In una
parola: uscire dalle “nicchie conviviali” in cui si trovano e agiscono.
Non per perdere il valore di solidarietà che rappresentano, ma per
superare la “separatezza” in cui sono imprigionate. Condizione
indispensabile per trasformare la protesta in pressione politica reale
e, in prospettiva, per darle una “rappresentanza democratica”
all’interno di istituzioni profondamente rinnovate.
Abbiamo
assistito (e vi abbiamo partecipato, relativamente alle nostre forze), a
due esempi straordinariamente positivi di movimenti che hanno saputo
costruire una parte cruciale del percorso dallo spontaneismo alla lotta
politica organizzata. Parlo dell’esperienza del movimento NO Tav della
Val di Susa e a quella grandiosa del movimento contro la privatizzazione
dell’acqua. Ce ne sono stati e ce ne sono molti altri, ma questi due
momenti, a mio avviso, indicano strade che devono essere ancora studiate
e che contengono i fermenti per un cambiamento radicale e positivo.
La
vittoria nei referendum dello scorso giugno, ad esempio, è il frutto di
un movimento corale, nazionale, plurale, che, certo, ha saputo fare uso
della Rete in modo magistrale, ma che ha realmente prodotto cultura
politica e forme di aggregazione democratica e partecipata del tutto
nuove. Il risultato è stato assolutamente impressionante, portando alla
vittoria 26 milioni di elettori, la maggioranza assoluta del corpo
elettorale, su una piattaforma, quella della difesa di un bene comune,
che è diametralmente opposta a quella delle classi dominanti. E la
vittoria referendaria - che adesso i poteri stanno cercando di scalzare
con l’inganno - non ha lasciato dietro di sé il vuoto.
Ecco la
novità di un movimento che non si vanifica, una volta raggiunto
l’obiettivo. Il movimento dell’Acqua ha tenuto e tiene testa, si
divincola dagl’impacci, contrattacca. Lo slogan “si scrive acqua, si
legge democrazia” riassume tutta l’ampiezza culturale e strategica di
una vera e propria coalizione, in cui sono presenti tutte le componenti
democratiche, non solo di sinistra, includendo in essa anche importanti
settori periferici dei partiti e dei sindacati della casta, ma
incontrollabili - o solo parzialmente controllabili - dalla casta.
Anche
in questo caso, però, il passaggio dal tema, pure già grande e
strategico, di un bene comune cruciale, a una strategia politica, di
governo, per la difesa dei beni comuni, è ancora da compiere. E sarebbe
pura ingenuità pensare che potrà essere compiuto in poco tempo. Perché
ciò accada si dovrà lavorare alla demolizione, allo smantellamento
totale della attuale classe politica. Eppure possiamo essere certi che
questo patrimonio non è stato accumulato invano e non si disperderà. E
su queste basi che Alternativa deve lavorare, come un lievito sulla
farina che deve produrre il pane.
Un’altra
esperienza cruciale, su cui intendo soffermarmi per il suo valore
strategico, è quella dei No Tav. Un movimento che è diventato un
antidoto al processo di demolizione della democrazia che le classi
dominanti, incluse quelle torinesi, stanno portando avanti ormai da
anni. Un movimento che, partito da una rivendicazione “particulare”, ha
saputo diventare “generale” in tutti i sensi, trasformandosi in
proposta per un diverso modello di vita associata, per una diversa idea
dei poteri locali, per una tattica e strategia di difesa del territorio
da parte delle popolazioni che lo abitano, direttamente, senza
mediazioni, in massa. Decine di migliaia di persone, decine di comuni,
sono diventati invincibili mettendo in atto una resistenza accanita
fondata sul diritto e sul sapere. Hanno dimostrato di saper mobilitare
l’intellighencija, hanno sconfitto i centri di ricerca del potere, hanno
demolito le loro elaborazioni concettuali, hanno denudato e messo in
ridicolo il re e la regina, pur avendo contro il sistema dei media
all’unanimità. Vedendoli combattere ho pensato che questo modello di
combattimento è e deve diventare il nostro modello. Basta estendere il
concetto di territorio fino a includere il nostro cervello, il nostro
corpo, la scuola pubblica dove studiano i nostri figli, la fabbrica e il
campo dove lavoriamo, l’ospedale pubblico dove ci curiamo, il piano
regolatore della città dove abitiamo, le strade che percorriamo, i
parchi dove passeggiamo.
La difesa del “territorio”
E si
troverà così, dappertutto, una Val di Susa. Ecco: su questo territorio
noi possiamo essere invincibili come lo sono diventati i cittadini della
Val di Susa. Basta imparare a essere in tanti. Sui nostri territori noi
non incontreremo mai, se non per caso, i “proprietari universali”. Ma i
“proprietari universali” non potranno mai venire a prendere i nostri
territori, se sapremo difenderli. Neanche se manderanno i loro scherani.
E poiché ogni individuo, femmina o maschio, vive nel proprio
territorio, del proprio territorio, ecco che questo esperimento - che è
riproducibile - se ripetuto, può diventare un tremendo e pericoloso
esempio per i “proprietari universali”. Per questo noi dobbiamo lanciare
la parola d’ordine: che siano cento e mille le Valli di Susa, in Italia
e in Europa. Come forma di lotta e come esperimento originale di
democrazia.
Noi
siamo dunque con la Val di Susa, e la Val di Susa è ora con noi dentro
un nuovo tentativo di aggregazione che, anche grazie ad essa, è dotato
di un insediamento sociale che potrebbe diventare rilevante e
significativo. Mi riferisco, e lo sapete, al Comitato No Debito, nato
il primo Ottobre a Roma al Teatro Ambra Jovinelli e consolidatosi
nell’assemblea del 17 dicembre, sempre a Roma. L’iniziativa di Giorgio
Cremaschi è parsa a tutto l’Ufficio Centrale molto importante. Abbiamo
aderito. I cinque punti della piattaforma sono buoni, tradizionalmente
di sinistra. Ma il no debito esce dalle righe della sinistra, nel senso
che occupa il terreno della finanza, su cui la sinistra non ha mai detto
niente in tutti questi decenni, mentre certi settori della destra
(extraparlamentare) lo hanno percorso in lungo e in largo con le idee
sul signoraggio nelle forme più elementari.
Ma ciò
non ha impedito a tutti i raggruppamenti di sinistra extraparlamentare
di aderirvi e entrarvi. La piattaforma del CND è, per diversi aspetti,
meno vasta, meno strategica di quella che fu di Uniti & Diversi. Non
vi è cenno alla guerra, non vi è cenno all’informazione- comunicazione,
non vi è cenno, soprattutto, ai temi della decrescita.
Noi
abbiamo deciso di starci dentro, perché siamo interessati alla
costruzione di un forte insediamento sociale di lotta e anche per
portarvi il contributo delle nostre posizioni, del nostro metodo, della
nostra strategia. Ed è quello che abbiamo fatto in questi mesi, dove
abbiamo potuto essere presenti.
Credo
che abbiamo fatto bene, ma sarà questa assemblea a decidere se ritiene
che questo giudizio sia fondato. Io penso che, a differenza di quello
che è stato Uniti & Diversi, il CND ci porta direttamente
all’interno dello scontro politico nazionale ed europeo sulla crisi. Lo
spazio politico non è ancora stato conquistato, la visibilità neppure.
Ma il CND sta dimostrando una vitalità forte. Le assemblee territoriali
indicano che esso non è una iniziativa di vertice, e che le periferie si
stanno muovendo. Una manifestazione nazionale a Milano è prevista per
il 10 marzo e sarà “Occupiamo piazza Affari” : un titolo che s’imporrà
sulle prime pagine dei giornali se riusciremo (e io penso che ci
riusciremo) a portare decine di migliaia di persone a
quell’appuntamento.
Certo,
cari amici, quando e se si affrontasse, nel CND, la questione di un
nuovo soggetto politico (e io penso che questo avverrà, o per nostra
iniziativa, o per iniziativa di altri, che la condividono), possiamo
essere certi che emergeranno immediatamente tutte le diverse e
contrapposte anime che popolano la sinistra, e s’innalzeranno barriere, e
nasceranno divisioni e lacerazioni. Dunque dobbiamo trattenere
eccessivi entusiasmi, da un lato, e dall’altro, dobbiamo operare con
grande saggezza perché il CND si rafforzi e dia tutto quello che può
dare, sia nel coordinamento nazionale, sia nelle realtà periferiche, nei
comitati territoriali, sui luoghi di lavoro e di studio, nelle
università e nei centri di ricerca. Il resto lo vedremo cammin facendo.
Una scuola dell’agire politico
Tutti gli aspetti che ho fin qui toccato saranno momenti impegnativi, in questo anno che si annuncia drammatico.
Saranno
difficili perché noi dovremmo essere dappertutto, mentre siamo ancora
pochi. Saranno difficili perché dovremo affrontarli studiando e
imparando.
Saranno
difficili perché li affronteremo mentre stiamo costruendo al nostro
interno una visione comune, un linguaggio comune, una condivisione a
tutto campo. E queste cose richiedono tempo, pazienza, rispetto
reciproco tra di noi.
Saranno
difficili perché - se lavoreremo bene - altre forze arriveranno nelle
nostre file, e poiché saranno diverse da noi, dovremo sapere
accoglierle, integrarle, portarle nell’alveo di un pensiero comune. Cioè
dovremo fare scuola e cultura mentre faremo lotta, e dovremo fare lotta
mentre approfondiremo i suoi contenuti.
Le
parole più chiare, e più belle, che ho letto in questi giorni, mi sono
venute da un saluto che ci ha inviato Paolo Bartolini. Tanto più
importanti perché vengono da chi in questi giorni ha patito un lutto
grave, con la scomparsa del padre amato, e per il quale gli porgiamo le
nostre più amichevoli condoglianze. Voglio citarle perché sono uno
splendido incitamento e augurio per tutti noi.
“La
Transizione è dunque in atto e credo sia fondamentale attrezzarci per
non reagire in modo semplicistico ad una situazione che, segnata da
tremende convulsioni, va rivelando tutta la sua complessità.
Il
mio augurio è che dentro Alternativa prevalga la consapevolezza del
tempo che ci vorrà anche solo per immaginare la nuova società che ci
aspetta. Vista la gravità di questi tempi, siamo spesso tentati di
cercare soluzioni lineari, e ci affidiamo (come sta avvenendo talvolta
nell’attuale dibattito interno ad Alternativa) ad un razionalismo
incapace di armonizzarsi con le altre dimensioni della realtà,
individuale e collettiva. L’indispensabile impiego della ragione
e delle argomentazioni logiche non può trascurare quanto la politica e
la vita umana eccedano le pretese “chiare e distinte” che la nostra
mente genera per proteggersi dal mistero quotidiano dell’esistenza. “ Ecco oggi
e domani dobbiamo discutere per uscire da qui sapendo meglio chi siamo,
che cosa vogliamo fare, cosa proponiano, con chi vogliamo stare, contro
chi dobbiamo combattere.
Il
bilancio da fare non è meno importante, però, dell’agenda del prossimo
futuro. E questo bilancio dev’essere equilibrato. Non abbiamo
trionfalismi da sbandierare, ma occorre non dimenticare da dove siamo
partiti e i mezzi che avevamo e abbiamo (per meglio dire che non avevamo
e che non abbiamo). Qualcuno, nella lista dell’Attivo ha scritto una
cosa che mi è piaciuta molto: eravamo come un gruppetto di persone che
salgono su un tram, senza conoscersi, senza sapere quali saranno le
fermate intermedie e avendo un’idea approssimativa del capolinea. Ma ci
siamo guardati e riconosciuti. Il lavoro fatto per capirsi è stato
intenso. Ma, come accade, molte volte abbiamo dovuto interromperlo per
aprire la porta ai nuovi arrivati, che avevano le stesse curiosità
nostre quando siamo saliti a bordo. E abbiamo ricominciato.
Tutto
era sperimentale, perfino il nostro Statuto, perché doveva essere così e
non avrebbe potuto essere diversamente. Abbiamo dovuto imparare a fare
lotta politica sui territori mentre ci chiedevamo cosa fosse la lotta
politica. Ecco una cosa importante per il futuro. Dobbiamo saper dire a
ciascuno cosa fare in quelle sette ore, che per molti sono già diventate
dieci e quindici, quasi un secondo lavoro, volontario. E questo non lo
abbiamo ancora imparato bene: ciascuno di noi è una forza, ma non tutte
le forze sono uguali, non tutti hanno le stesse sensibilità, le stesse
competenze, la stessa disinvoltura, le stesse paure. Compito dei gruppi
dirigenti è dare compiti, fornire indicazioni, scegliere le
persone giuste per le funzioni giuste. Così mobiliteremo tante forze
che, per il momento, rimangono a guardare semplicemente perché non sanno
cosa fare e perché nessuno ha mai insegnato loro come si fanno le
cose. E, infatti, la maggioranza non sa né cosa fare, né come farlo.
Questa si chiama scuola dell’agire politico.
Le organizzazioni territoriali
Un
altro punto importante sarà l’autonomia delle organizzazioni
territoriali. Durante questo anno solo alcune di esse si sono mosse
autonomamente, hanno creato iniziativa senza aspettare l’imbeccata
dall’alto, dal centro. Quella che lo Statuto prevede non è soltanto la
possibilità di assumere posizioni proprie, di fare scelte ideali
nell’ambito del programma comune, ma anche quella di “figliare”
succursali, gruppi, di estendere la propria influenza sul territorio di
stringere alleanze.
Alternativa
- lo dicevamo alla prima Assemblea Nazionale - non è nata per fare da
sola, per sostituirsi in splendida solitudine a tutti gli altri soggetti
che si muovono sui territori. Noi non dobbiamo né pensare di essere già
partito, né inventarci le biciclette su cui altri stanno già pedalando.
Alternativa deve assorbire ciò che già c’è e offrire a tutti
gl’interlocutori una contesto di riflessione più ampio. Qualche volta
avremo da imparare, qualche volta avremo da insegnare, con la necessaria
modestia. L’obiettivo è un soggetto politico molto più vasto di noi,
che non saremo i soli a creare. Questo ci deve distinguere e ci
distinguerà da ogni altro raggruppamento.
Abbiamo
detto che non abbiamo steccati in cui rinchiuderci e dunque ci
muoveremo a 360 gradi, alla ricerca di interlocutori, come abbiamo fatto
fin dall’inizio. Saremo a geometria variabile. Noi non abbiamo nemici
tra tutti coloro che hanno compreso che è in questione la salvezza del
genere umano e che occorre affrontare gli strumenti per una transizione
epocale. Né abbiamo nemici tra tutti coloro che sono contro la guerra e
contro le ingiustizie. Ma ciascuno di noi deve sentire il dovere della
militanza e dell’appartenenza. Non siamo partito, è vero, ma non siamo
neanche un’armata Brancaleone dove ci si va come si può andare in
qualunque posto. Noi non siamo un “posto qualunque”.
Il programma politico
Uno dei
risultati che abbiamo portato qui - anch’esso sperimentale, anch’esso
in fieri - è una bozza di programma politico per la battaglia contro
questo governo, contro questa classe politica. Non ne affronterò i
dettagli. C’è stata una vasta discussione nelle organizzazioni
territoriali che ha prodotto una mole cospicua di emendamenti. E’ giusto
che sia così ed è un segno di salute. Dobbiamo dirci con tutta
franchezza, però, che il lavoro è ancora lontano dall’essere completo e
adeguato. Vengono a noi centinaia di domande alle quali ancora non siamo
attrezzati a rispondere. Vado per cenni: il discorso sui diritti civili
è appena sfiorato, quello delle questioni di genere, altrettanto. E lo è
tutto il discorso sulle nuove economie, sulle buone pratiche, sulle
monete alternative, sul commercio equo e solidale. E’ un lungo elenco di
biciclette su cui pedalare. Dobbiamo organizzarci per affrontare i
contenuti di molti temi che ancora non sono entrati nelle nostre file.
Gli amici dell’Ufficio Centrale, per esempio, sanno che, appena varata
la bozza di programma che avete discusso, è arrivata la lettera di un
contadino, che ci ha chiesto dove stavano le proposte per l’agricoltura.
Semplicemente non c’erano. E non c’erano perché gli estensori del
documento erano tutti gente di città, che sa poco o niente di
agricoltura. L’avevamo dimenticata!
Qualche
errore lo abbiamo commesso nella comunicazione tra centro e periferia.
Una delle ragioni della crisi che stiamo affrontando, non l’unica però, è
stata questa. Ma anche qui occorre equilibrio nel valutarla. Qualcuno
si è indignato perché non ne sapeva nulla, di ciò che si discuteva
nell’Ufficio Centrale. Ma non c’è da indignarsi: le cose sono andate
così, in parte, semplicemente perché non avevamo gli strumenti della
comunicazione e li abbiamo costruiti cammin facendo. Nessuno ha voluto
“restare al chiuso”. Semplicemente non avevamo nemmeno i mezzi, intendo
dire il denaro, per dotarci di un ufficio stampa permanente. D’altro
canto è stato più facile creare un centro forte, mentre le periferie
erano ancora deboli. E, nello stesso tempo, la necessità di costruire in
fretta un terreno comune di dibattito, di approfondimento, e un centro
irradiatore di proposte ci ha fatto dimenticare che non tutto si
esauriva in quel punto. Questo è stato un errore, senza dubbio, reso
più grave dal fatto che l’unico che si muoveva a tutto campo sul
territorio, e nei media, ero e sono io, e dunque le possibilità di
trasmissione dal centro alla periferia, e viceversa, sono rimaste
anchilosate e asfittiche. Ma nessuno, posso garantirlo, ha voluto questo
stato di cose. Se un giorno qualcuno andrà a rileggersi le migliaia di
mail che ci siamo scritti, le discussioni infinite che abbiamo
sviluppato, capirà cosa significa fondare un laboratorio politico come
Alternativa, nelle condizioni date, con le forze date.
Adesso
abbiamo tre siti da usare, oltre al mio personale che campeggia ancora
sulle nostre bandiere (non dimentichiamo che siamo partiti da quello).
C’è Megachip.info, c’è alternativa-politica.it, c’è pandoratv.it. E ci
sono siti amici, molto vicini, come Antimafia 2000, e altri vicini, che
aiutano. Abbiamo un Gruppo Media che ha fatto un grande lavoro, e
avviato un canale Youtube come MegaChannelZero. Abbiamo tre mailing list
operative per l’Ufficio Centrale per il Gruppo media, e, ultimo nato,
in ritardo purtroppo, ma che ha funzionato benissimo proprio in questa
nostra travagliata discussione attuale, cioè la mailing list dell’Attivo
Nazionale, nella quale ci siete quasi tutti e spero diventi lo
strumento chiave per la comunicazione interna dei prossimi mesi, in modo
che tutti sappiano l’essenziale di tutto.
Rimane
tuttavia l’anomalia della assoluta preponderanza della mia persona per
quanto concerne l’immagine esterna di Alternativa. E’ un dato di fatto
difficile da cambiare nel tempo breve, ma non è salutare. Dovremo
cercare di modificarlo. Per il momento, tuttavia, il nostro compito (e
questo è un compito collettivo) dovrà essere quello di usare meglio la
mia presenza nei media in modo tale che essa si risolva in un vantaggio
per Alternativa. Per quanto mi concerne ho trovato grandi resistenze,
nei media nazionali che talvolta mi ospitano, ad associare il mio nome a
quello di Alternativa. Qualche braccio di ferro l’ho vinto, qualche
altro l’ho perduto. Il bilancio della mia attività esterna ve lo voglio
dare, perché considero questa una informazione operativa, utile anche
per le organizzazioni territoriali: nell’ultimo anno soltanto ho
incontrato, in incontri pubblici e conferenze di vario genere, 17.700
persone (contro le 5400 del 2010), ho rilasciato 49 interviste alle
radio italiane (25 l’anno precedente), 12 interviste a tv locali (7 nel
2010), 16 a radio straniere (7), 9 a tv straniere (5) . Per quanto
riguarda il mainstream televisivo italiano il cambio è stato radicale.
Contro zero apparizioni su tutte le reti RAI e Mediaset (solo La 7,
Omnibus, mi ospitò 7 volte), nel 2010, l’anno scorso ho avuto 9
apparizioni su tutte le reti RAI, 4 sulle Reti Mediaset , 3 su La 7. Nel
complesso la mia attività e visibilità pubblica si è accresciuta in
modo considerevole. Bisognerà tenerne conto e usarne meglio le ricadute.
Si è visto, per esempio, che radio e televisioni locali sono molto più
disponibili a dare spazio. D’ora in poi, dovunque io vada, e dovunque
Alternativa agisca sul territorio, i gruppi territoriali devono
realizzare una sistematica operazione di informazione. L’esperienza dice
che i risultati ci sono.
La decrescita
Un
punto vorrei ricordare. Alternativa si è presentata sulla scena della
“voragine” con un messaggio difficile da digerire. Abbiamo avuto e
abbiamo timidezze nel diffonderlo. Bisogna scrollarsele di dosso. Io
sono reduce da decine di incontri pubblici dove il messaggio di allarme
che io diffondo “passa” ormai con grandissimo consenso. L’avevo detto e
lo ricorderete, molti di voi che erano a Genova: quello che oggi appare
incomprensibile ai più, domani sarà visibile a molti, e dopodomani sarà
evidente alla maggioranza. Pensavo che ci sarebbe voluto più tempo. In
un solo anno la situazione è già radicalmente mutata. L’ultima
conferenza, a Frascati, con trecento persone davanti, la maggioranza in
piedi per due ore e mezzo, ne è l’esempio più clamoroso: un consenso
unanime, una richiesta di chiarificazione, di spiegazioni, un interesse
estremo. Le potenzialità del nostro discorso crescono insieme al
crescere della crisi. Guai perdere il treno.
Ma
dobbiamo anche saper modulare questo messaggio. Ho guardato le immagini
della Grecia e ho letto molte notizie. Il disastro sociale che investe
milioni di persone è impressionante. E’ la fotografia di ciò che ci
attende, inutile chiudere gli occhi. Propagandare la decrescita, meno
che mai disegnarla come “felice”, in una situazione come questa, sarebbe
sciocco. La decrescita c’è, si accentuerà a grande velocità. Dovremo
subirla prima di esaltarla.
Dobbiamo
dire la verità, scrollando gli sciocchi; difendere le condizioni di
vita dei lavoratori, dei precari, dei pensionati, dei giovani
disoccupati, ma non nascondere che ogni illusione di un ritorno al
passato è preclusa. Non ci sarà un ritorno alla crescita di prima. E’
questo il momento di prepararsi a una “transizione”. Questa deve essere
la nostra parola d’ordine. Il sistema capitalistico è in agonia, ci ha
rovinato la vita, ci sta togliendo la democrazia, ci preclude un futuro,
ci fa precipitare in guerra. Bisogna organizzare la difesa dei nostri
territori, dovunque. Questa è l’alternativa se si vuole sopravvivere e
vivere. Dobbiamo essere, in qualche modo, anche “profeti”. E non ridete
se uso questa parola, perché ormai, dovunque vada, vengono persone
semplici a ringraziarmi proprio perché hanno sentito parole di verità
che li hanno toccati nel profondo.
Ma
attendiamoci momenti di furia, e di panico. Si stanno già verificando,
qua e là anche in Italia. Alternativa deve diventare anche qualche cosa
che, fino ad ora, non abbiamo esaminato. Deve diventare un rifugio,
un’isola, una sicurezza anche ideale, morale, una scialuppa di
salvataggio, una maniglia cui aggrapparsi, in primo luogo per sapere
dove sta la verità. Non è soltanto un messaggio politico. A volte sento
che le persone chiedono da noi un afflato morale, etico. Ci saranno
momenti in cui questa esigenza emergerà potente, tra le difficoltà
estreme in cui ci troveremo.
Sulla
situazione politica italiana ho poco da dire. Il governo Monti sta
perdendo popolarità, di settimana in settimana. Adesso cominciano le
privatizzazioni e la gente comincia a fare i conti è scopre che non ha
più soldi. Milioni stanno scivolando sotto la soglia di povertà. La
crescita, di cui biascica Monti, non ci sarà, né subito né poi. Il resto
è affidato agli esiti dello scontro internazionale che è in atto dentro
l’Occidente imperiale, prima tappa di uno scontro globale che rimane
sullo sfondo, ma che si annuncia epocale, da fine d’epoca. Qui la
posizione che assumeremo, dopo questo nostro dibattito, è e sarà uno dei
cardini su cui Alternativa acquisirà la propria fisionomia nel
dibattito politico nazionale.
Sulla crisi mondiale
E’ su
questo grande tema, della crisi mondiale, che dobbiamo discutere, non
della semplificazione provinciale che dividerebbe, anche tra di noi, i
cosiddetti “sovranisti”, dai cosiddetti “europeisti”. Respingo questa
suddivisione, che è il derivato di una miopia teorica e concettuale. Per
me la questione della nostra visione “europea” non può essere
affrontata senza guardare al mondo. Per la semplice ragione che non c’è
una soluzione del problema che possa prescindere dalla collocazione
dell’Italia e dell’Europa nel mondo in convulsione in cui abitiamo.
Come si
suol dire, siamo di fronte a una manifestazione della “complessità”
nuova che dobbiamo saper interpretare. E il modo peggiore di farlo è
quello di tentare di semplificare il complesso quando non è
semplificabile. Per esempio - ed è solo uno dei tanti angoli visuali in
cui è possibile collocarsi - io non credo affatto che ci sia oggi un
unico e compatto capitalismo internazionale. Penso invece che ci siano,
almeno in Occidente, due linee strategiche che si combattono
ferocemente, direi al penultimo sangue (perché poi ci sarà da chiudere i
conti con la Cina, la Russia e il Bric). Non c’è nessun ordine
mondiale. C’è il caos. Entrambe le linee portano al disastro. Non vedere
questo significa non poter formulare nessuna proposta razionale. O
significa finire nelle braccia di una delle due fazioni, che ci sono
entrambe mortalmente nemiche.
Io
penso che stiamo assistendo a una grande partita politico economica,
senza esclusione di colpi bassi e molto duri, la cui posta è il
controllo dell’Europa, e della sua moneta, in funzione anti-russa, e
anti-cinese. Sta avvenendo sotto i nostri occhi. L’euro è il primo
bottino in palio. Il declassamento di mezza Europa, inclusa la Francia,
deciso la scorsa settimana con un intervento esplicitamente politico
della più importante agenzia di rating americana, non può
essere interpretato diversamente che come un attacco, appunto politico,
dei gemelli d’oro anglosassoni Wall Street-City di Londra. Contro chi?
Essenzialmente contro la finanza europea capitanata da Merkel-Sarkozy.
Voglio
precisare qui il mio pensiero. Questo scontro non sarebbe giusto
definirlo tra Stati Uniti e Europa. In realtà la sua fisionomia è
diversa. Il centro - provvisorio e a sua volta precario - della
speculazione finanziaria internazionale è l’hub Wall
Street-City di Londra. I confini nazionali c’entrano relativamente e
solo fino a un certo punto. C’entrano nel senso che i “proprietari
universali” hanno scelto come il loro “braccio armato” gli Stati Uniti
d’America. E’ uno ovvietà, forse, ma bisogna ricordarla. Non è dunque
l’astratto interesse degli USA, o della Gran Bretagna, quello che muove i
due gemelli d’oro. Li interessa il dominio della Federal Reserve
- che è saldamente nelle loro mani, insieme ai due ostaggi Barack Obama
e David Cameron - , che essi intendono esercitare mediante la
eccezionale potenza militare degli Stati Uniti. Questo dominio non può
più essere imposto - essi lo sanno ma pensano che sia una limitazione
transitoria - all’intero pianeta, come è stato nel corso degli ultimi
settant’anni, ma si propongono, nel frattempo, di imporlo, se necessario
con la forza, a tutto l’Occidente.
Il
Consiglio dei ministri dei 27 paesi dell’Unione aveva accettato le
proposte di Merkel-Sarkozy? Ebbene ecco la risposta: prima David
Cameron, con un gesto clamoroso e senza precedenti, lo ha ridotto a 26
membri, sbattendo la porta. Poi Standard & Poor’s manda i
bombardieri e colpisce, di sorpresa, Francia e Austria che, fino a quel
momento, erano rimaste “al di sopra di ogni sospetto”. Obiettivi su cui
puntavano: incrinare l’alleanza franco-tedesca, rendere impossibile, o
enormemente più costoso, il fondo salva Stati, che pure la Germania non
vuole. Ma obiettivo strategico ben più grosso: mettere in ginocchio
tutta l’Europa e costringere esplicitamente la BCE a diventare il
prestatore in ultima istanza delle banche private che stanno per fallire
di nuovo. Cioè costringere la BCE a fare l’alter ego europeo della Federal Reserve.
E tutti gli Stati europei, dentro e fuori la zona euro, a sottostare
alle regole della finanza senza regole, guidata dagli anglosassoni e
solo da loro.
Tutto
sembra dirci che le élites economiche (quelle politiche seguono)
americane non intendono prendere atto dello stato dei rapporti reali di
forze mondiali. Procedono come per inerzia nella riproposizione di se
stesse come il centro del mondo. Lo fanno mentre tutti i dati analitici
dicono che il loro dominio incontrollato è già stato demolito. Lo fanno,
a quanto pare, pensando che l’Europa deve arruolarsi al loro servizio.
Lo fanno sapendo di poter contare sull’acquiescenza, sulla connivenza,
della finanza europea, che non vede altro appiglio possibile che quello
di sempre, collocandosi all’ombra di Wall Street-City of London. E lo
fanno sapendo che le élites politiche europee sono in gran parte al
servizio degli stessi scopi.
In gran
parte, ma non tutte. Nel grande scontro di dicembre la Germania,
tirandosi dietro la Francia, con appesa dietro l’Italia di Mario Monti, è
andata a cozzare contro la Gran Bretagna. Ed è riuscita a trascinare
con sé gli altri 25. Non è cosa da poco, se si tiene conto che mezza
Est-Europa è ancora più americana che tedesca. Tanto più se si pensa che
è la stessa Germania che ha rifiutato di andare in guerra contro la
Libia appena pochi mesi fa. Mi pongo e vi pongo una domanda: c’è
qualcuno che pensa che, in queste condizioni, la Germania andrebbe in
guerra contro l’Iran, o anche soltanto prenderebbe parte a una
operazione militare contro la Siria? La mia opinione è che questo
scontro, ormai violentissimo, punti a demolire la resistenza tedesca ai
disegni della finanza anglosassone, i quali sono a loro volta coniugati o
coniugabili con quelli di Israele, ormai lanciato ventre a terra nella
preparazione dello scontro con Teheran.
L’accelerazione
che Wall Street-City of London sta imponendo al confronto mondiale
indica tuttavia una grande fretta e un incipiente panico. Non c’è tempo
di sistemare le cose con un negoziato. In altri tempi l’Europa (governi e
opinioni pubbliche) fu convinta e assoggettata con le buone, con i
vantaggi dello sviluppo del debito, con la seduzione dei consumi, con
l’illusione della crescita infinita. Le classi dominanti, essenzialmente
compradore, hanno ceduto tutto, si sono fatte comprare
ricevendo come premio il potere e il consenso di larghe masse di ceto
medio e di vasti settori lavoratori, abbagliati dal consumo e catturati
con il controllo pubblicitario, a sua volta organizzato dal controllo
assoluto sul costo-contatto dei messaggi
dell’informazione-comunicazione.
Ora
tutto questo non è più possibile. Non c’è tempo. I margini si sono
assottigliati. Il debito americano dilaga; l’illusione si è logorata;
l’Europa è una formazione economico-sociale non riconducibile al modello
anglosassone: il patto sociale europeo va spezzato. Ma questo mette a
repentaglio la tenuta politica e sociale delle classi dominanti europee,
che reagiscono in modo differenziato. Mario Monti, Papademos sono stati
messi ai loro posti per fare i demolitori del modello, ma non è certo
che ci riescano. Dunque questa Europa - che pure è molto lontana
dall’essere popolare e democratica - deve essere costretta con le
cattive. Esattamente questo è il giudizio di Standard & Poor’s.
Niente più astrusi giudizi, basati su cifre cabalistiche la cui
verificabilità è sempre stata problematica. Ora è venuto il tempo delle
sentenze, in base alle quali una agenzia di credito statunitense decreta
la incapacità politica dei governi e la non affidabilità dei popoli.
Tutti i
limiti sono stati superati. Anche quello, che sembrava estremo, di una
Banca Centrale Europea che passa, da organismo indipendente dai governi
europei e dalla stessa Europa, a istituzione sovranazionale che impone
le sue nuove regole a governi formalmente ancora sovrani. Adesso è
un’agenzia di credito d’oltre oceano che decreta insolvibile l’intera
Europa. Abbiamo tutti i motivi per pensare, ora, che, in caso di
opposizione, verranno giocate altre carte, più pesanti, più minacciose,
più esplosive. In senso figurato ma anche in senso proprio. E perché
non c’è tempo? Perché gli gnomi di Wall Street-City of London non hanno
una ricetta per uscire dal cul di sacco in cui si trovano. E
ripropongono l’allargamento, l’enfiagione purulenta del debito
planetario. Non perché pensino che questo risolverà il problema, ma
perché non hanno altro da offrire. E, pur sapendolo, perseverano. Una
specie di coazione a ripetere autodistruttiva, che produrrà
l’esplosione. E’ pensabile, anzi è probabile, che intendano anticiparla
con un’altra esplosione. Con una guerra. Che deve essere più grande
delle precedenti, poiché non basterebbe una piccola guerra per bruciare i
libri mastri e per costringere tutti, dopo averli derubati e
annichiliti, a ricominciare d’accapo, come si è sempre fatto. L’unica
differenza è che neppure quel “come si è sempre fatto” è riproducibile.
Ecco
dunque perché io ritengo che noi dobbiamo stare molto attenti a non
incappare nelle numerose tagliole che si nascondono davanti ai nostri
passi. Soprattutto non dimenticando che le tagliole vengono piazzate
non in mezzo alla strada asfaltata - lì le vedrebbero tutti - ma
proprio lungo le scorciatoie. Il che non significa, me ne guarderei
bene!, dire che bisogna camminare solo sull’asfalto. Ma stare attenti
sì. Le situazioni evolvono a grande velocità, le bocce sono in
movimento. Tutte le bocce. L’arte della guerra si deve imparare su un
bigliardo nuovo. Sbagliare è facile. Il modo più facile di sbagliare è
quello di seguire il percorso di una sola boccia, perché si perdono
sicuramente di vista tutte le altre, e poiché le altre sono tante e
possono incocciare la nostra boccia mentre meno ce lo aspettiamo.
Ecco
perché abbiamo ritenuto che fosse sbagliata la parola d’ordine che ci
veniva proposta da alcuni di noi: di proclamare, come l’asse della
nostra proposta, la parola d’ordine di “fuori dall’Europa e fuori
dall’euro”. Ho già spiegato, nelle mie prese di posizione, che si
tratta di una proposta “fuori tempo”, anticipata, non meditata. Una
proposta che potrebbe crearci problemi seri, ove accadesse, per
esempio, che a farci uscire dall’euro fosse qualcuno dei nemici che
stiamo combattendo. L’uno o l’altro non importa. Ci troveremmo a dover
spiegare perché abbiamo scelto noi una via che potrebbe comportare
sconvolgimenti inauditi, imprevedibili, che colpirebbero le grandi masse
popolari.
Diamo
un’occhiata a quello che succede in Grecia. So bene che questi
sconvolgimenti li stanno preparando i nostri nemici, comunque, e che, in
ogni caso le masse popolari saranno costrette a subirli, loro in primo
luogo. Ma altra cosa è denunciare le loro responsabilità, altra cosa è
proclamare una nostra scelta, che viene fatta senza avere misurato le
conseguenze. Una scelta esiziale, nel momento in cui nessuno, proprio
nessuno, è in grado di misurare tutte le conseguenze. Invitare il
governo in carica a proclamare il default, unilateralmente, come una
scelta volontaria, senza avere la minima possibilità di influire sui
rapporti di forza esistenti, senza avere strumenti per fermare la
speculazione internazionale, significherebbe esporsi a ogni attacco
esterno senza avere predisposto difese. E l’Italia si troverebbe
precisamente in questa situazione. E non sarebbe motivo di tranquillità
una uscita verso la sovranità della lira costruita in base al modello
ungherese di Viktor Orbàn. Uscita verso il fascismo, cioè.
Significa
tutto questo che, per combattere l’offensiva di Wall Street-City, noi
dobbiamo sposare la linea di Merkel, Monti, Sarkozy? Me ne guardo bene.
Ecco la tagliola che affiora tra l’erba. Noi sappiamo che la crisi viene
da lontano e che non è esorcizzabile con le liberalizzazioni, con la
disciplina di bilancio, o cambiando il mercato del lavoro fino al punto
da cancellare tutte le conquiste di un secolo. Non sarebbe possibile
fermarla neanche se fossimo in piena crescita economica. Figurarsi se la
possono fermare mentre comincia la più grande recessione che
l’Occidente abbia mai conosciuto! Questo lo sappiamo perfettamente, in
primo luogo perché siamo giunti ai limiti della crescita e, quindi -
anche nell’ipotesi che si verifichino, tra alcuni anni, alcuni spasmi
di crescita - non sarà a quella che potremo appendere le nostre speranze
e quelle di decine di milioni di lavoratori italiani e alcune centinaia
di lavoratori europei, ai quali non siamo meno vicini.
La
crescita continuerà altrove, fuori dall’Occidente. Per un pò di tempo, e
non potrà fermarla nessuno. Né noi possiamo fare della nostra bandiera -
e ci mancherebbe altro! - la parola d’ordine di fermarla, che equivale
alla guerra.
Torniamo
dunque al nostro dibattito. Ho scritto altrove, spero lo abbiate letto,
che io non penso che Alternativa debba scegliere il ruolo della zanzara
che dichiara guerra all’elefante. Noi dobbiamo dire le cose che si
possono fare. E, quando non si possono fare, dobbiamo scegliere quelle
giuste, che sentiamo necessarie per il futuro dell’Uomo. In numerosi
altri momenti ho spiegato la mia visione strategica della crisi
planetaria. In essa l’Europa è presente come un protagonista
insostituibile. Non da sola, ma in un partenariato strategico con la
Russia. E non questa Europa, perché questa Europa è diventata uno
strumento nelle mani della finanza internazionale, ed è stata dirottata
dall’idea di un’Europa federale e sovrana, a quella di una Grande
Germania, che è una caricatura dell’Europa. Anche pericolosa. Ma di una
Europa abbiamo bisogno, per salvaguardare la pace mondiale.
Allora
ritorno alla faccenda delle semplificazioni terminologiche di cui ho
parlato all’inizio di questo paragrafo. Se porre al centro della
riflessione di Alternativa l’idea di un nuovo processo costituente
europeo, che significhi cancellare gli attuali Trattati di Lisbona e di
Maastricht; se ci si pone l’obiettivo di una vasta partecipazione
popolare alla creazione di questo nuovo processo costituente, che
preveda decisioni solo ed esclusivamente attraverso referendum popolari
in tutti i paesi membri; se si chiede la “nazionalizzazione delle grandi
banche nazionali, sottraendo loro ogni ruolo nel campo del credito e
del controllo finanziario, trasferendo le loro funzioni al credito
cooperativo e popolare”; se si restituisce “il controllo e la sovranità
monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi ministeri del tesoro
pubblico” ; se si decide di mettere fuori legge le agenzie di rating
e i paradisi fiscali, bandendoli dall’Europa, e sospendendo le Borse
che obbedissero ai loro ordini con l’imputazione di turbativa d’asta a
scopo speculativo; se si dicesse ai popoli europei, tutti, che i debiti
sovrani vanno “riportati dentro i confini dei vari paesi con
l’annullamento di tutti gl’impegni sui titoli che impongono un interesse
bancario superiore al 2,5-3% annuo, e collocandoli tra i propri
cittadini con un prestito nazionale solidale” simile a quello che si
chiamò il “prestito per la ricostruzione” nell’immediato dopoguerra, il
tutto a costi concordati e con la garanzia solidale dell’Unione Europea e
della Banca Centrale Europea divenuta anch’essa pubblica: ebbene, se
queste sono le idee che noi scegliamo, allora accetterei di essere
definito “europeista”. (le citazioni tra virgolette sono tratte da un
articolo di Bruno Amoroso, sotto l’egida del Centro Studi Federico
Caffè)
Un
“europeista” che afferma di volere indietro la sovranità che altri, non
noi, hanno delegato all’attuale Unione Europea, e che è stata usata
contro gli interessi popolari, contro il dettato della nostra
Costituzione. Chiedere la restituzione del maltolto, fino a che l’Europa
cessi di essere lo scranno dei banchieri e cominci a corrispondere alle
nostre aspettative, non significa essere contro l’Europa. (Come si vede
non ho affatto cambiato idea negli ultimi tempi).
Un
nuovo processo costituente europeo, che coinvolgesse nel suo formarsi
non solo tutta l’area fin qui esclusa dell’ex Jugoslavia, ma soprattutto
la Russia e la Turchia, con le loro rispettive aree di influenza,
trasformerebbe questa regione del mondo nel più potente agglomerato di
idee e di potenziali economici e ambientali mai creato nella storia
umana. Un protagonista di pace, dal quale nessuno potrebbe prescindere
nella delicatissima e pericolosa transizione che ci apprestiamo a
fronteggiare.
E,
naturalmente, un’Europa sovrana non potrebbe che essere uno stato libero
dalle truppe straniere, cioè libero dalla NATO. Esiste uno schieramento
politico, italiano ed europeo, in grado di porsi questi obiettivi?
Sappiamo che non esiste, al momento attuale. Ma, in questo campo come in
tutti gli altri, le bocce sono in movimento. Ciò che oggi appare
lontano o impossibile può diventare realistico e necessario. Anche la
transizione appare oggi impossibile, eppure sarà obbligatoria.
Tutto
ciò che ho detto non ha nulla di definitivo. E’ un tentativo di
approssimazione. Ho detto, e ripeto, che, quando un sistema di equazioni
è inferiore al numero delle incognite, risolverlo è impossibile.
Allora non resta che ridurre il numero delle incognite e aumentare il
numero delle equazioni. E’ anche questo un compito cruciale di un
laboratorio politico molto speciale, qual è il nostro. Questo lo
possiamo fare solo insieme, se saremo in molti, se saremo saggi, se
saremo solidali, se saremo forti.
Buon lavoro.
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