martedì 24 gennaio 2012

La relazione di Giulietto Chiesa alla II Assemblea Nazionale di Alternativa

La Seconda Assemblea nazionale di Alternativa, di fatto il nostro secondo Congresso, si svolge nel pieno di una crisi senza precedenti del paese dalla nascita della Repubblica. Quando cominciammo, come Laboratorio Politico, ne avevamo tracciato i contorni, dicendo che nascevamo anche per costruire, appunto, un’Alternativa a quella crisi. Ma ciò che sta accadendo indica sviluppi più accelerati, più drammatici, più gravi perfino di quelli che noi indicammo allora, poco più d’un anno fa.  L’analisi era giusta , ma era al di sotto della realtà, sebbene ci fosse chi la definiva troppo catastrofista.
L’intero paese è in declino. Un declino assai più vasto e molteplice della evidente caduta dell’economia. E’ un declino sociale, istituzionale, di fiducia, morale. A cominciare dalla sfiducia della gente nei partiti (solo il 4% dei cittadini ci crede); nel Parlamento (solo il 9%, quattro punti meno di un anno fa). Ma è una sfiducia che travolge tutto e tutti. Le banche nazionali, tutte ormai molto private, convincono solo un cittadino su 7, quando dieci anni fa le banche erano ancora istituzioni nelle quali un cittadino su 3 era disposto a mettere la mano sul fuoco. Crollano, nei ratings popolari, più o meno con le stesse percentuali, le istituzioni finanziarie europee e internazionali. Non c’è ragione di piangere per questi dati che, anzi, rivelano un livello di attenzione razionale di gran parte del pubblico, che in tal modo si dimostra niente affatto addormentato.
L’Unione Europea ha perso poi addirittura 16 punti rispetto al 2001, quando entrò in vigore l’euro, e ora si colloca al 37%. Vuol dire che allora la maggioranza degli italiani “credeva” nell’Europa. Magari era solo un sintomo della sfiducia verso le istituzioni italiane, una specie di speranza per una salvezza che veniva dall’esterno, dal “più grande”. Adesso non crediamo più neppure nell’Europa. E, per questo, abbiamo abbondanti ragioni.
In generale, se si mettono in un fascio tutte le istituzioni politiche e di governo, si scopre che l’indice di fiducia della popolazione italiana è sceso, in soli cinque anni, dal 42 al 33%. Nove punti in meno (sono i dati di una accurata indagine firmata Demos-La Repubblica) di cui dobbiamo tenere conto, perché vengono confermati da una identica tendenza che si vede mettendo insieme tutte le istituzioni economiche e sociali, le imprese, i sindacati, le cooperative, nei cui confronti la fiducia media dei cittadini è scesa di un uguale scalino del 9%, dal 35  al 26%. Discese parallele che - come rilevava Ilvo Diamanti - fanno pensare, più che a un declino a una vera e propria recessione.
Ma la cosa interessante, di cui dobbiamo ugualmente tenere conto (anzi da cui dobbiamo partire) è che a questo crollo fa da contrappunto una forte capacità di reazione della società, dal basso, dalle periferie, dal popolo. Non è la rinuncia, l’abbandono, la resa, il dato generale. Certo, in molti questi sentimenti esistono, e contano. Ma questo non esaurisce il quadro, affatto! Al contrario si registrano numerosi, diversificati, forti segnali di mobilitazione di risposta, di impegno, di lotta, che zampillano da centinaia di focolai di resistenza. Le proteste di moltiplicano in molte parti d’Italia, si fanno qua e là rabbiose. Non solo non siamo di fronte all’acqua stagnante, ma a un panorama di crescente ribellione, che lo Stato e le istituzioni non sono in grado di fronteggiare.
Tuttavia le centinaia di “corpo a corpo” che i gruppi sociali colpiti ingaggiano con i poteri che, volta a volta, si trovano di fronte, nazionali o periferici, categoriali o generali, raramente si risolvono. E si spiega fin troppo bene perché. Il ribollire della “voragine” di cui parlammo a Genova nel 2010, non trova una “maniglia” cui aggrapparsi. Ricordate da dove partimmo: dalla individuazione della necessità di dare forma organizzata, nazionale, coordinata, alla miriade di proteste. Partimmo dalla cruda constatazione che in Italia, da tempo non esiste più un’opposizione politica, e dalla necessità di costruirla. Uno dei caratteri distintivi di Alternativa è stato, ed è, il rifiuto di ogni commistione con la casta, con la classe politica. In  questo sapevamo di trovare alleati numerosi nella “voragine”. Ma abbiamo scoperto, in questo primo anno di lavoro tra la gente, che nella “voragine” coesiste anche una tenace ostilità contro ogni forma di organizzazione politica. 

Cosa abbiamo trovato nella “voragine”
L’abbiamo sperimentato con il tentativo di Uniti & diversi. E’ avvenuto, si può dire, al punto più alto, con interlocutori  dignitosi. Il Movimento per la Decrescita Felice di Maurizio Pallante; il Movimento per il Bene Comune, di Fernando Rossi e di Monia Benini; il Movimento Zero, di Massimo Fini; la Rete Piemontese dei Movimenti e delle Liste Civiche.  Un tratto di percorso comune siamo riusciti a farlo, giungendo perfino a una assemblea nazionale, nel dicembre 2010, che pose unitariamente la prima pietra di un edificio che avrebbe dovuto essere un “nuovo soggetto politico”.
Il documento fondativo che ne emerse, frutto di un reale lavoro comune e di un reale convergenza, al quale Alternativa diede un contributo decisivo, è probabilmente il punto più alto di quel tentativo. Conteneva una serie di questioni basilari della nostra piattaforma generale di idee: dalla decrescita, alla totale ostilità contro la guerra, alla questione cruciale del ribaltamento dell’intero sistema radiotelevisivo, alla difesa della Costituzione e dei diritti sociali e civili che essa sottende, alla radicale riorganizzazione democratica delle istituzioni del paese.
Eppure abbiamo finito per scoprire che l’idea di un nuovo soggetto politico unitario, che facesse da punto di riferimento per tanti movimenti diversi, non esisteva in realtà. Ciascuno dei piccoli e piccolissimi raggruppamenti non è riuscito a uscire dalla propria nicchia conviviale, costringendoci alla fine a rinunciare al progetto. Abbiamo scoperto che senza un effettivo insediamento sociale non si può andare da nessuna parte. Tutti insieme ne abbiamo preso atto due mesi fa. Non abbiamo litigato, siamo rimasti buoni amici; continua la collaborazione attiva con la Rete Piemontese, al cui lavoro partecipiamo per le elezioni di Rivalta, ma quella strada è risultata sbarrata, dicendoci al tempo stesso  che la questione della convergenza delle forze esistenti è tutt’ora aperta e che, senza risolverla, non potremo fare i passi successivi che ci attendono. Anche questo è uno dei temi della nostra discussione congressuale che non possiamo trascurare.
Non parlo della miriade di tentativi analoghi andati tutti variamente falliti. Ad alcuni abbiamo partecipato; altri li abbiamo seguiti come osservatori, ben sapendo che le prospettive sarebbero state magre o nulle. La ragione di tutti questi flop  non è organizzativa, è politica. Derivano tutti, in maggiore o minore misura, da un errore fondamentale di analisi: dall’illusione “retista”. Cioè dall’idea che sia possibile costruire una democrazia rigorosamente senza rappresentanza, dove non solo tutti si collocano “in cerchio”, alla stesso grado di condivisione, allo stesso grado di influenza; dove non c’è gerarchia, non solo quella di importanza, ma neppure quella di conoscenza, di sapere, di specializzazione.
Chi sa cosa significa organizzazione, sa anche che questo tipo di modello non può produrre non solo alcuna reale decisione, ma nemmeno alcuna reale democrazia. Perché una  gerarchia di saperi, di abilità, di competenza - e alla fine di sapienza demagogica  - finisce sempre per imporsi, anche sotto le forme di una parità fittizia. Fare chiarezza su questi punti, dei quali si nutre abbondantemente, per esempio, Beppe Grillo, è uno dei nostri compiti, sia operativi che teorici. Anche nei confronti di Grillo, infatti, ogni tentativo fatto fino ad ora, di affrontare in comune le battaglie, seppure i punti di convergenza esistano, è naufragato nel più netto dei rifiuti. Restano le convergenze sempre possibili. Ma da questo a un soggetto politico maturo c’è un oceano di passaggi politici e culturali che devono essere compiuti.

I limiti insuperabili dell’antipolitica
Tutto questo è parte della  cosiddetta “antipolitica”, cioè di una sacrosanta repulsione verso la classe politica, mista  a sentimenti generici di rivolta: il tutto in contenitorI che ospitaNO, insieme al grano, anche il loglio dell’incultura, della semplificazione, della banalizzazione dei problemi. La polemica e il disgusto - giustificato - verso i partiti si coniugano con il rifiuto di ogni forma di organizzazione, si sposano con l’analfabetismo storico e culturale,  con l’esaltazione dell’improvvisazione. Mai trovare qualcuno che abbia letto Gramsci per esempio. Mai, o quasi mai, trovare qualcuno che, quando si parla di democrazia, si spinga a dare un’occhiata alla Costituzione, e alla storia dei modi con cui i diversi modelli di democrazia si sono formati.
Una esaltazione, spesso del tutto acritica, della Rete come luogo della libertà e della verità possibile, dove si mescolano, in un caleidoscopio di confusioni sovrapposte, valanghe di semplificazioni e di illusioni, dove apparentemente tutti sono uguali a tutti (mentre in realtà si confrontano sempre gerarchie);  tutti parlano con tutti (mentre in realtà solo alcuni parlano con alcuni altri); tutti sono liberi (mentre tutti sono strumenti della pubblicità e dei motori di ricerca); tutti sono produttori di contenuti, ai quali viene messo a disposizione lo strumento per diffonderli (dimenticando che non tutti i contenuti hanno uguale livello di dignità e, soprattutto che non a tutti è data uguale possibilità di diffusione). E si potrebbe continuare a lungo con l’elencazione delle illusioni , prodotte e moltiplicate dai social network, ormai divenuti così potenti e pervasivi da costituire strumenti indispensabili anche per l’agire politico. Fino a divenire strumenti di modificazione della geopolitica, delle strategie di conquista e di dominio dei popoli, come s’è visto nella cosiddetta primavera araba.
Da qui semplificazioni innumerevoli e impotenti, che spesso risentono di influenze primitive provenienti da oltre oceano, dalle correnti New Age, da afflussi diversificati di incerta ed eclettica origine nei quali è difficile, quando non impossibile, mettere ordine. Il “movimentismo” è stato l’esplicitarsi materiale di questa sommatoria tra protesta giovanile, rabbia e assenza di esperienza di lotta e di organizzazione. A sua volta alimentato dai media del potere, che si esaltano all’idea di qualche cosa che si muove e sono pronti a osannarla, per poter impostare titoli sensazionalistici, purché, e fino a che, non disturbi troppo il manovratore. L’idea ossimorica, cioè , che sia possibile ottenere risultati permanenti mediante forme di movimento e di lotta che, per la loro stessa natura transitoria, non possono essere permanenti, “per la contraddizion che nol consente”. Ricordiamo tutti, noi più anziani, quel titolone del New York Times, che mise sullo stesso piano le due “potenze” in campo, come equivalenti, alla vigilia della guerra contro l’Iraq: i centri bellicisti, che organizzavano la guerra e il pur grandissimo movimento pacifista che la respingeva. Ci fu chi ci credette, che fossero sullo stesso piano. Invece non erano affatto ugualmente potenti. La guerra ci fu e molti, tra quelli che ingenuamente ci avevano creduto, caddero nello sconforto, e ci sono rimasti fino ad ora. E non è bastata la guerra di Libia a farli risvegliare. Ecco, in questo esempio sta tutto il problema che ancora abbiamo di fronte.

Matrix non è tutto
Che è il grandissimo problema di introdurre una “cultura della politica” nella “voragine”. E’ questione, però, assai diversa - riflettiamoci con attenzione in questa nostra discussione di oggi - dall’indottrinamento delle masse. In primo luogo perché in questa “voragine” non ci sono soltanto masse da indottrinare. Milioni di individui, donne e uomini, hanno già fatto un loro percorso culturale e intellettuale, si sono sottratti a Matrix, hanno fatto pratica politica (anche se aborrono la politica perfino come parola). Per essi il problema non è quello di imparare a lottare, ma è quello di superare la “liquidità” della protesta, di acquistare una visione d’insieme, un’interpretazione complessiva della crisi, una capacità di misurare la velocità delle trasformazioni, di vedere i pericoli che si stagliano all’orizzonte, anche quelli apparentemente lontani.
In una parola:  uscire dalle “nicchie conviviali” in cui si trovano e agiscono. Non per perdere il valore di solidarietà che rappresentano, ma per superare la “separatezza” in cui sono imprigionate. Condizione indispensabile per trasformare la protesta in pressione politica reale e, in prospettiva, per darle una “rappresentanza democratica” all’interno di istituzioni profondamente rinnovate.
Abbiamo assistito (e vi abbiamo partecipato, relativamente alle nostre forze), a due esempi straordinariamente positivi di movimenti che hanno saputo costruire una parte cruciale del percorso dallo spontaneismo alla lotta politica organizzata. Parlo dell’esperienza del movimento NO Tav della Val di Susa e a quella grandiosa del movimento contro la privatizzazione dell’acqua. Ce ne sono stati e ce ne sono molti altri, ma questi due momenti, a mio avviso, indicano strade che devono essere ancora studiate e che contengono i fermenti per un cambiamento radicale e positivo.
La vittoria  nei referendum dello scorso giugno, ad esempio, è il frutto di un movimento corale, nazionale, plurale, che, certo, ha saputo fare uso della Rete in modo magistrale, ma che ha realmente prodotto cultura politica e forme di aggregazione democratica e partecipata del tutto nuove. Il risultato è stato assolutamente impressionante, portando alla vittoria 26 milioni di elettori, la maggioranza assoluta del corpo elettorale,   su una piattaforma, quella della difesa di un bene comune, che è diametralmente opposta a quella delle classi dominanti. E la vittoria referendaria - che adesso i poteri stanno cercando di scalzare con l’inganno - non ha lasciato dietro di sé il vuoto.
Ecco la novità di un movimento che non si vanifica, una volta raggiunto l’obiettivo. Il movimento dell’Acqua ha tenuto e tiene testa, si divincola dagl’impacci, contrattacca. Lo slogan “si scrive acqua, si legge democrazia” riassume tutta l’ampiezza culturale e strategica  di una vera e propria coalizione, in cui sono presenti tutte le componenti democratiche, non solo di sinistra, includendo in essa anche importanti settori periferici dei partiti e dei sindacati della casta, ma incontrollabili - o solo parzialmente controllabili - dalla casta.
Anche in questo caso, però,  il passaggio dal tema, pure già grande e strategico, di un bene comune cruciale, a una strategia politica, di governo, per la difesa dei beni comuni, è ancora da compiere. E sarebbe pura ingenuità pensare che potrà essere compiuto in poco tempo. Perché ciò accada si dovrà lavorare alla demolizione, allo smantellamento totale della attuale classe politica. Eppure possiamo essere certi che questo patrimonio non è stato accumulato invano e non si disperderà. E su queste basi che Alternativa deve lavorare, come un lievito sulla farina che deve produrre il pane.
Un’altra esperienza cruciale, su cui intendo soffermarmi per il suo valore strategico, è quella dei No Tav.  Un movimento che è diventato un antidoto al processo di demolizione della democrazia che le classi dominanti, incluse quelle torinesi, stanno portando avanti ormai da anni. Un movimento che, partito da una rivendicazione “particulare”, ha saputo diventare “generale” in tutti i sensi, trasformandosi  in proposta per un diverso modello di vita associata, per una diversa idea dei poteri locali, per una tattica e strategia di difesa del territorio da parte delle popolazioni che lo abitano, direttamente, senza mediazioni, in massa. Decine di migliaia di persone, decine di comuni, sono diventati invincibili mettendo in atto una resistenza accanita fondata sul diritto e sul sapere. Hanno dimostrato di saper mobilitare l’intellighencija, hanno sconfitto i centri di ricerca del potere, hanno demolito le loro elaborazioni concettuali, hanno denudato e messo in ridicolo il re e la regina, pur avendo contro il sistema dei media all’unanimità. Vedendoli combattere ho pensato che questo modello di combattimento è e deve diventare il nostro modello. Basta estendere il concetto di territorio fino a includere il nostro cervello, il nostro corpo, la scuola pubblica dove studiano i nostri figli, la fabbrica e il campo dove lavoriamo, l’ospedale pubblico dove ci curiamo, il piano regolatore  della città dove abitiamo, le strade che percorriamo, i parchi dove passeggiamo.

La difesa del “territorio”
E si troverà così, dappertutto, una Val di Susa. Ecco: su questo territorio noi possiamo essere invincibili come lo sono diventati i cittadini della Val di Susa. Basta imparare a essere in tanti. Sui nostri territori noi non incontreremo mai, se non per caso, i “proprietari universali”. Ma i “proprietari universali” non potranno mai venire a prendere  i nostri territori, se sapremo difenderli. Neanche se manderanno i loro scherani. E poiché ogni individuo, femmina o maschio, vive nel proprio territorio, del proprio territorio, ecco che questo esperimento - che è riproducibile - se ripetuto, può diventare un tremendo e pericoloso esempio per i “proprietari universali”. Per questo noi dobbiamo lanciare la parola d’ordine: che siano cento e mille le Valli di Susa, in Italia e in Europa. Come forma di lotta e come esperimento originale di democrazia.
Noi siamo dunque con la Val di Susa, e la Val di Susa è ora con noi dentro un nuovo tentativo di aggregazione che, anche grazie ad essa, è dotato di un  insediamento sociale che potrebbe diventare rilevante e significativo. Mi riferisco, e lo sapete, al Comitato No Debito,  nato il primo Ottobre a Roma al Teatro Ambra Jovinelli e consolidatosi nell’assemblea del 17 dicembre, sempre a Roma. L’iniziativa di Giorgio Cremaschi è parsa a tutto l’Ufficio Centrale molto importante. Abbiamo aderito. I cinque punti della piattaforma sono buoni, tradizionalmente di sinistra. Ma il no debito esce dalle righe della sinistra, nel senso che occupa il terreno della finanza, su cui la sinistra non ha mai detto niente in tutti questi decenni, mentre certi settori della destra (extraparlamentare) lo hanno percorso in lungo e in largo con le idee sul signoraggio nelle forme più elementari.
Ma ciò non ha impedito a tutti i raggruppamenti di sinistra extraparlamentare di aderirvi e entrarvi. La piattaforma del CND è, per diversi aspetti, meno vasta, meno strategica di quella che fu di Uniti & Diversi. Non vi è cenno alla guerra, non vi è cenno all’informazione- comunicazione, non vi è cenno, soprattutto, ai temi della decrescita.
Noi abbiamo deciso di starci dentro, perché siamo interessati alla costruzione di un forte insediamento sociale di lotta e anche per portarvi il contributo delle nostre posizioni, del nostro metodo, della nostra strategia. Ed è quello che abbiamo fatto in questi mesi, dove abbiamo potuto essere presenti.
Credo che abbiamo fatto bene, ma sarà questa assemblea a decidere se ritiene che questo giudizio sia fondato. Io penso che, a differenza di quello che è stato Uniti & Diversi, il CND ci porta direttamente all’interno dello scontro politico nazionale ed europeo sulla crisi. Lo spazio politico non è ancora stato conquistato, la visibilità neppure. Ma il CND sta dimostrando una vitalità forte. Le assemblee territoriali indicano che esso non è una iniziativa di vertice, e che le periferie si stanno muovendo. Una manifestazione nazionale a Milano è prevista per il 10 marzo e sarà “Occupiamo piazza Affari” : un titolo che s’imporrà sulle prime pagine dei giornali se riusciremo (e io penso che ci riusciremo) a portare decine di migliaia di persone a quell’appuntamento.
Certo, cari amici, quando e se si affrontasse, nel CND, la questione di un nuovo soggetto politico (e io penso che questo avverrà, o per nostra iniziativa, o per iniziativa di altri, che la condividono), possiamo essere certi che emergeranno immediatamente tutte le diverse e contrapposte anime che popolano la sinistra, e s’innalzeranno barriere, e nasceranno divisioni e lacerazioni. Dunque dobbiamo trattenere eccessivi entusiasmi, da un lato, e dall’altro, dobbiamo operare con grande saggezza perché il CND si rafforzi e dia tutto quello che può dare, sia nel coordinamento nazionale, sia nelle realtà periferiche, nei comitati territoriali, sui luoghi di lavoro e di studio, nelle università e nei centri di ricerca. Il resto lo  vedremo cammin facendo.

Una scuola dell’agire politico
Tutti gli aspetti che ho fin qui toccato saranno momenti impegnativi, in questo anno che si annuncia drammatico.
Saranno difficili perché noi dovremmo essere dappertutto, mentre  siamo ancora pochi. Saranno difficili perché dovremo affrontarli studiando e imparando.
Saranno difficili perché li affronteremo mentre stiamo costruendo al nostro interno una visione comune, un linguaggio comune, una condivisione a tutto campo. E queste cose richiedono tempo, pazienza, rispetto reciproco tra di noi.
Saranno difficili perché - se lavoreremo bene - altre forze arriveranno nelle nostre file, e poiché saranno diverse da noi,  dovremo sapere accoglierle, integrarle, portarle nell’alveo di un pensiero comune. Cioè dovremo fare scuola e cultura mentre faremo lotta, e dovremo fare lotta mentre approfondiremo i suoi contenuti.
Le parole più chiare, e più belle, che ho letto in questi giorni, mi sono venute da un saluto che ci ha inviato Paolo Bartolini. Tanto più importanti perché vengono da chi in questi giorni ha patito un lutto grave, con la scomparsa del padre amato, e per il quale gli porgiamo le nostre più amichevoli condoglianze. Voglio citarle perché sono uno splendido incitamento e augurio per tutti noi.
“La Transizione è dunque in atto e credo sia fondamentale attrezzarci per non reagire in modo semplicistico ad una situazione che, segnata da tremende convulsioni, va rivelando tutta la sua complessità.
Il mio augurio è che dentro Alternativa prevalga la consapevolezza del tempo che ci vorrà anche solo per immaginare la nuova società che ci aspetta. Vista la gravità di questi tempi, siamo spesso tentati di cercare soluzioni lineari, e ci affidiamo (come sta avvenendo talvolta nell’attuale dibattito interno ad Alternativa) ad un razionalismo incapace di armonizzarsi con le altre dimensioni della realtà, individuale e collettiva. L’indispensabile impiego della ragione e delle argomentazioni logiche non può trascurare quanto la politica e la vita umana eccedano le pretese “chiare e distinte” che la nostra mente genera per proteggersi dal mistero quotidiano dell’esistenza. “  Ecco oggi e domani dobbiamo discutere per uscire da qui sapendo meglio chi siamo, che cosa vogliamo fare, cosa proponiano, con chi vogliamo stare, contro chi dobbiamo combattere.
Il bilancio da fare non è meno importante, però, dell’agenda del prossimo futuro. E questo bilancio dev’essere equilibrato. Non abbiamo trionfalismi da sbandierare, ma occorre non dimenticare da dove siamo partiti e i mezzi che avevamo e abbiamo (per meglio dire che non avevamo e che non abbiamo). Qualcuno, nella lista dell’Attivo ha scritto una cosa che mi è piaciuta molto: eravamo come un gruppetto di persone che salgono su un tram, senza conoscersi, senza sapere quali saranno le fermate intermedie e avendo un’idea approssimativa del capolinea. Ma ci siamo guardati e riconosciuti. Il lavoro fatto per capirsi è stato intenso. Ma, come accade, molte volte abbiamo dovuto interromperlo per aprire la porta ai nuovi arrivati, che avevano le stesse curiosità nostre quando siamo saliti a bordo. E abbiamo ricominciato.
Tutto era sperimentale, perfino il nostro Statuto, perché doveva essere così e non avrebbe potuto essere diversamente.  Abbiamo dovuto imparare a fare lotta politica sui territori mentre ci chiedevamo cosa fosse la lotta politica. Ecco una cosa importante per il futuro. Dobbiamo saper dire a ciascuno cosa fare in quelle sette ore, che per molti sono già diventate dieci e quindici, quasi un secondo lavoro, volontario. E questo non lo abbiamo ancora imparato bene: ciascuno di noi è una forza, ma non tutte le forze sono uguali, non tutti hanno le stesse sensibilità, le stesse competenze, la stessa disinvoltura, le stesse paure. Compito dei gruppi dirigenti è dare compiti, fornire indicazioni, scegliere le persone giuste per le funzioni giuste.  Così mobiliteremo tante forze che, per il momento, rimangono a guardare semplicemente perché non sanno cosa fare e perché nessuno ha mai insegnato loro come si fanno le cose.  E, infatti, la maggioranza non sa né cosa fare, né come farlo. Questa si chiama scuola dell’agire politico.

Le organizzazioni territoriali
Un altro punto importante sarà l’autonomia delle organizzazioni territoriali. Durante questo anno solo alcune di esse si sono mosse autonomamente, hanno creato iniziativa senza aspettare l’imbeccata dall’alto, dal centro. Quella che lo Statuto prevede non è soltanto la possibilità di assumere posizioni proprie, di fare scelte ideali nell’ambito del programma comune, ma anche quella di “figliare” succursali, gruppi, di estendere la propria influenza sul territorio di stringere alleanze.
Alternativa - lo dicevamo alla prima Assemblea Nazionale - non è nata per fare da sola, per sostituirsi in splendida solitudine a tutti gli altri soggetti che si muovono sui territori. Noi non dobbiamo né pensare di essere già partito, né inventarci le biciclette su cui altri stanno già pedalando. Alternativa deve assorbire ciò che già c’è e offrire a tutti gl’interlocutori una contesto di riflessione più ampio. Qualche volta avremo da imparare, qualche volta avremo da insegnare, con la necessaria modestia. L’obiettivo è un soggetto politico molto più vasto di noi, che non saremo i soli a  creare. Questo ci deve distinguere e ci distinguerà da ogni altro raggruppamento.
Abbiamo detto che non abbiamo steccati in cui rinchiuderci e dunque ci muoveremo a 360 gradi, alla ricerca di interlocutori, come abbiamo fatto fin dall’inizio. Saremo a geometria variabile. Noi non abbiamo nemici tra tutti coloro che hanno compreso che è in questione la salvezza del genere umano e che occorre affrontare gli strumenti per una transizione epocale. Né abbiamo nemici tra tutti coloro che sono contro la guerra e contro le ingiustizie. Ma ciascuno di noi deve sentire il dovere della militanza e dell’appartenenza. Non siamo partito, è vero, ma non siamo neanche un’armata Brancaleone dove ci si va come si può andare in qualunque posto. Noi non siamo un “posto qualunque”.

Il programma politico
Uno dei risultati che abbiamo portato qui - anch’esso sperimentale, anch’esso in fieri - è una bozza di programma politico per la battaglia contro questo governo, contro questa classe politica. Non ne affronterò i dettagli. C’è stata una vasta discussione nelle organizzazioni territoriali che ha prodotto una mole cospicua di emendamenti. E’ giusto che sia così ed è un segno di salute. Dobbiamo dirci con tutta franchezza, però, che il lavoro è ancora lontano dall’essere completo e adeguato. Vengono a noi centinaia di domande alle quali ancora non siamo attrezzati a rispondere. Vado per cenni: il discorso sui diritti civili è appena sfiorato, quello delle questioni di genere, altrettanto. E lo è tutto il discorso sulle nuove economie, sulle buone pratiche, sulle monete alternative, sul commercio equo e solidale. E’ un lungo elenco di biciclette su cui pedalare. Dobbiamo organizzarci per affrontare i  contenuti di molti temi che ancora non sono entrati nelle nostre file. Gli amici dell’Ufficio Centrale, per esempio, sanno che, appena varata la bozza di programma che avete discusso, è arrivata la lettera di un contadino, che ci ha chiesto dove stavano le proposte per l’agricoltura. Semplicemente non c’erano. E non c’erano perché gli estensori del documento erano tutti gente di città, che sa poco o niente di agricoltura. L’avevamo dimenticata!
Qualche errore lo abbiamo commesso nella comunicazione tra centro e periferia. Una delle ragioni della crisi che stiamo affrontando, non l’unica però, è stata questa. Ma anche qui occorre equilibrio nel valutarla. Qualcuno si è indignato perché non ne sapeva nulla, di ciò che si discuteva nell’Ufficio Centrale. Ma non c’è da indignarsi: le cose sono andate così, in parte,  semplicemente perché non avevamo gli strumenti della comunicazione e li abbiamo costruiti cammin facendo. Nessuno ha voluto “restare al chiuso”. Semplicemente non avevamo nemmeno i mezzi, intendo dire il denaro, per dotarci di un ufficio stampa permanente. D’altro canto è stato più facile creare un centro forte, mentre le periferie erano ancora deboli. E, nello stesso tempo, la necessità di costruire in fretta un terreno comune di dibattito, di approfondimento, e un centro irradiatore di proposte ci ha fatto dimenticare che non tutto si esauriva in quel punto.  Questo è stato un errore, senza dubbio, reso più grave dal fatto che l’unico che si muoveva a tutto campo sul territorio, e nei media, ero e sono io, e dunque le possibilità di trasmissione dal centro alla periferia, e viceversa, sono rimaste anchilosate e asfittiche. Ma nessuno, posso garantirlo, ha voluto questo stato di cose. Se un giorno qualcuno andrà a rileggersi le migliaia di mail che ci siamo scritti, le discussioni infinite che abbiamo sviluppato, capirà cosa significa  fondare un laboratorio politico come Alternativa, nelle condizioni date, con le forze date.
Adesso abbiamo tre siti da usare, oltre al mio personale che campeggia ancora sulle nostre bandiere (non dimentichiamo che siamo partiti da quello). C’è Megachip.info, c’è alternativa-politica.it, c’è pandoratv.it. E ci sono siti amici, molto vicini, come Antimafia 2000, e altri vicini, che aiutano. Abbiamo un Gruppo Media che ha fatto un grande lavoro, e avviato un canale Youtube come MegaChannelZero. Abbiamo tre mailing list operative per l’Ufficio Centrale per il Gruppo media, e, ultimo nato, in ritardo purtroppo, ma che ha funzionato benissimo proprio in questa nostra travagliata discussione attuale, cioè la mailing list dell’Attivo Nazionale, nella quale ci siete quasi tutti e spero diventi lo strumento chiave per la comunicazione interna dei prossimi mesi, in modo che tutti sappiano l’essenziale di tutto. 
Rimane tuttavia l’anomalia della assoluta preponderanza della mia persona per quanto concerne l’immagine esterna di Alternativa. E’ un dato di fatto difficile da cambiare nel tempo breve, ma non è salutare. Dovremo cercare di modificarlo. Per il momento, tuttavia, il nostro compito (e questo è un compito collettivo) dovrà essere quello di usare meglio la mia presenza nei media in modo tale che essa si risolva in un vantaggio per  Alternativa. Per quanto mi concerne ho trovato grandi resistenze, nei media nazionali che talvolta mi ospitano, ad associare il mio nome a quello di Alternativa. Qualche braccio di ferro l’ho vinto, qualche altro l’ho perduto. Il bilancio della mia attività esterna ve lo voglio dare, perché considero questa una informazione operativa, utile anche per le organizzazioni territoriali: nell’ultimo anno soltanto ho incontrato, in incontri pubblici e conferenze di vario genere, 17.700 persone (contro le 5400 del 2010), ho rilasciato 49 interviste alle radio italiane (25 l’anno precedente), 12 interviste a tv locali (7 nel 2010), 16 a radio straniere (7), 9 a tv straniere (5) . Per quanto riguarda il mainstream televisivo italiano il cambio è stato radicale. Contro zero apparizioni su tutte le reti RAI e Mediaset (solo La 7, Omnibus, mi ospitò 7 volte), nel 2010, l’anno scorso ho avuto 9 apparizioni su tutte le reti RAI, 4 sulle Reti Mediaset , 3 su La 7. Nel complesso  la mia attività e visibilità pubblica si è accresciuta in modo considerevole. Bisognerà tenerne conto e usarne meglio le ricadute. Si è visto, per esempio, che radio e televisioni locali sono molto più disponibili a dare spazio. D’ora in poi, dovunque io vada, e dovunque Alternativa agisca sul territorio, i gruppi territoriali devono realizzare una sistematica operazione di informazione. L’esperienza dice che i risultati ci sono.

La decrescita
Un punto vorrei ricordare. Alternativa si è presentata sulla scena della “voragine” con un messaggio difficile da digerire. Abbiamo avuto e abbiamo timidezze nel diffonderlo. Bisogna  scrollarsele di dosso. Io sono reduce da decine di incontri pubblici dove il messaggio di allarme che io diffondo “passa” ormai con grandissimo consenso. L’avevo detto e lo ricorderete, molti di voi che erano a Genova: quello che oggi appare incomprensibile ai più, domani sarà visibile a molti, e dopodomani sarà evidente alla maggioranza. Pensavo che ci sarebbe voluto più tempo. In un solo anno la situazione è già radicalmente mutata. L’ultima conferenza, a Frascati, con trecento persone davanti, la maggioranza in piedi per due ore e mezzo, ne è l’esempio più clamoroso: un consenso unanime, una richiesta di chiarificazione, di spiegazioni, un interesse estremo. Le potenzialità del nostro discorso crescono insieme al crescere della crisi. Guai perdere il treno.
Ma dobbiamo anche saper modulare questo messaggio. Ho guardato le immagini della Grecia e ho letto molte notizie. Il disastro sociale che investe milioni di persone è impressionante. E’ la fotografia di ciò che ci attende, inutile chiudere gli occhi. Propagandare la decrescita, meno che mai disegnarla come “felice”, in una situazione come questa, sarebbe sciocco. La decrescita c’è, si accentuerà a grande velocità. Dovremo subirla prima di esaltarla. 
Dobbiamo dire la verità, scrollando gli sciocchi; difendere le condizioni di vita dei lavoratori, dei precari, dei pensionati, dei giovani disoccupati, ma non nascondere che ogni illusione di un ritorno al passato è preclusa. Non ci sarà un ritorno alla crescita di prima. E’ questo il momento di prepararsi a una “transizione”. Questa deve essere la nostra parola d’ordine. Il sistema capitalistico è in agonia, ci ha rovinato la vita, ci sta togliendo la democrazia, ci preclude un futuro, ci fa precipitare in guerra. Bisogna organizzare la difesa dei nostri territori, dovunque. Questa è l’alternativa se si vuole sopravvivere e vivere. Dobbiamo essere, in qualche modo, anche “profeti”. E non ridete se uso questa parola, perché ormai, dovunque vada, vengono persone semplici a ringraziarmi proprio perché hanno sentito parole di verità che li hanno toccati nel profondo.
Ma attendiamoci momenti di furia, e di panico. Si stanno già verificando, qua e là anche in Italia. Alternativa deve diventare anche qualche cosa che, fino ad ora, non abbiamo esaminato. Deve diventare un rifugio, un’isola, una sicurezza anche ideale, morale, una scialuppa di salvataggio, una maniglia cui aggrapparsi, in primo luogo per sapere dove sta la verità. Non è soltanto un messaggio politico. A volte sento che le persone chiedono da noi un afflato  morale, etico. Ci saranno momenti in cui questa esigenza emergerà potente, tra le difficoltà estreme in cui ci troveremo.
Sulla situazione politica italiana ho poco da dire. Il governo Monti sta perdendo popolarità, di settimana in settimana. Adesso cominciano le privatizzazioni e la gente comincia a fare i conti è scopre che non ha più soldi. Milioni stanno scivolando sotto la soglia di povertà. La crescita, di cui biascica Monti, non ci sarà, né subito né poi. Il resto è affidato agli esiti dello scontro internazionale che è in atto dentro l’Occidente imperiale, prima tappa di uno scontro globale che rimane sullo sfondo, ma che si annuncia epocale, da fine d’epoca. Qui  la posizione che assumeremo, dopo questo nostro dibattito, è e sarà uno dei cardini su cui Alternativa acquisirà la propria fisionomia nel dibattito politico nazionale.

Sulla crisi  mondiale
E’ su questo grande tema, della crisi mondiale, che dobbiamo discutere, non della semplificazione provinciale che dividerebbe, anche tra di noi, i cosiddetti “sovranisti”, dai cosiddetti “europeisti”. Respingo questa suddivisione, che è il derivato di una miopia teorica e concettuale. Per me la questione della nostra visione “europea” non può essere affrontata senza guardare al mondo. Per la semplice ragione che non c’è una soluzione del problema che possa prescindere dalla collocazione dell’Italia e dell’Europa nel mondo in convulsione in cui abitiamo.
Come si suol dire, siamo di fronte a una manifestazione della “complessità” nuova che  dobbiamo saper interpretare. E il modo peggiore di farlo è quello di tentare di semplificare  il complesso quando non è semplificabile. Per esempio - ed è solo uno dei tanti angoli visuali in cui è possibile collocarsi - io non credo affatto che ci sia oggi un unico e compatto capitalismo internazionale. Penso invece che ci siano, almeno in Occidente, due linee strategiche che si combattono ferocemente, direi al penultimo sangue (perché poi ci sarà da chiudere i conti con la Cina, la Russia e il Bric). Non c’è nessun ordine mondiale. C’è il caos. Entrambe le linee portano al disastro. Non vedere questo significa non poter formulare nessuna proposta razionale. O significa finire nelle braccia di una delle due fazioni, che ci sono entrambe mortalmente nemiche. 
Io penso che stiamo assistendo a una grande partita politico economica, senza esclusione di colpi bassi e molto duri, la cui posta è il controllo dell’Europa, e della sua moneta,  in funzione anti-russa, e anti-cinese. Sta avvenendo sotto i nostri occhi. L’euro è il primo bottino in palio. Il declassamento di mezza Europa, inclusa la Francia, deciso la scorsa settimana con un intervento esplicitamente politico della più importante agenzia di rating americana, non può essere interpretato diversamente che come un attacco, appunto politico, dei gemelli d’oro anglosassoni Wall Street-City di Londra. Contro chi? Essenzialmente contro la finanza europea capitanata da Merkel-Sarkozy.
Voglio precisare qui il mio pensiero. Questo scontro non sarebbe giusto definirlo tra Stati Uniti e Europa. In realtà la sua fisionomia è diversa. Il centro - provvisorio e a sua volta precario - della speculazione finanziaria internazionale è l’hub Wall Street-City di Londra. I confini nazionali c’entrano relativamente e solo fino a un certo punto. C’entrano nel senso che i “proprietari universali” hanno scelto come il loro “braccio armato” gli Stati Uniti d’America. E’ uno ovvietà, forse, ma bisogna ricordarla. Non è dunque l’astratto interesse degli USA, o della Gran Bretagna, quello che muove i due gemelli d’oro. Li interessa il dominio della Federal Reserve - che è saldamente nelle loro mani, insieme ai due ostaggi Barack Obama e David Cameron - , che essi intendono esercitare mediante la eccezionale potenza militare degli Stati Uniti. Questo dominio non può più essere imposto - essi lo sanno ma pensano che sia una limitazione transitoria - all’intero pianeta, come è stato nel corso degli ultimi settant’anni, ma si propongono, nel frattempo, di imporlo, se necessario con la forza, a tutto l’Occidente.
Il Consiglio dei ministri dei 27 paesi dell’Unione aveva accettato le proposte di Merkel-Sarkozy? Ebbene ecco la risposta: prima David Cameron, con un gesto clamoroso e senza precedenti, lo ha ridotto a 26 membri, sbattendo la porta. Poi Standard & Poor’s manda i bombardieri e colpisce, di sorpresa, Francia e Austria che, fino a quel momento, erano rimaste “al di sopra di ogni sospetto”. Obiettivi  su cui puntavano: incrinare l’alleanza franco-tedesca, rendere impossibile, o enormemente più costoso, il fondo salva Stati, che pure la Germania non vuole. Ma obiettivo strategico ben più grosso: mettere in ginocchio tutta l’Europa e costringere esplicitamente la BCE a diventare il prestatore in ultima istanza delle banche private che stanno per fallire di nuovo. Cioè costringere la BCE a fare l’alter ego europeo della Federal Reserve. E tutti gli Stati europei, dentro e fuori la zona euro, a sottostare alle regole della finanza senza regole, guidata dagli anglosassoni e solo da loro.
Tutto sembra dirci che le élites economiche (quelle politiche seguono) americane non intendono prendere atto dello stato dei rapporti reali di forze mondiali. Procedono come per inerzia nella riproposizione di se stesse come il centro del mondo. Lo fanno mentre tutti i dati analitici dicono che il loro dominio incontrollato è già stato demolito. Lo fanno, a quanto pare, pensando che l’Europa deve arruolarsi al loro servizio. Lo fanno sapendo di poter contare sull’acquiescenza, sulla connivenza, della finanza europea, che non vede altro appiglio possibile che quello di sempre, collocandosi all’ombra di Wall Street-City of London. E lo fanno sapendo che le élites politiche europee sono in gran parte al servizio degli stessi scopi.
In gran parte, ma non tutte. Nel grande scontro di dicembre la Germania, tirandosi dietro la Francia, con appesa dietro l’Italia di Mario Monti, è andata a cozzare contro la Gran Bretagna. Ed è riuscita a trascinare con sé  gli altri 25. Non è cosa da poco, se si tiene conto che mezza Est-Europa è ancora più americana che tedesca. Tanto più se si pensa che è la stessa Germania che ha rifiutato di andare in guerra contro la Libia appena pochi mesi fa. Mi pongo e vi pongo una domanda: c’è qualcuno che pensa che, in queste condizioni, la Germania andrebbe in guerra contro l’Iran, o anche soltanto prenderebbe parte a una operazione militare contro la Siria? La mia opinione è che questo scontro, ormai violentissimo, punti a demolire la resistenza tedesca ai disegni della finanza anglosassone, i quali sono a loro volta coniugati o coniugabili con quelli di Israele, ormai lanciato ventre a terra nella preparazione dello scontro con Teheran. 
L’accelerazione che Wall Street-City of London sta imponendo al confronto mondiale indica tuttavia una grande fretta e un incipiente panico. Non c’è tempo di sistemare le cose con un negoziato. In altri tempi l’Europa (governi e opinioni pubbliche) fu convinta e assoggettata con le buone, con i vantaggi dello sviluppo del debito, con la seduzione dei consumi, con l’illusione della crescita infinita. Le classi dominanti, essenzialmente compradore,  hanno ceduto tutto, si sono fatte comprare ricevendo come premio il potere e il consenso di larghe masse di ceto medio e di vasti settori lavoratori, abbagliati dal consumo e catturati con il controllo   pubblicitario, a sua volta organizzato dal controllo assoluto sul costo-contatto dei messaggi dell’informazione-comunicazione.
Ora tutto questo non è più possibile. Non c’è tempo. I margini si sono assottigliati. Il debito americano dilaga;  l’illusione si è logorata; l’Europa è una formazione economico-sociale non riconducibile al modello anglosassone: il patto sociale europeo va spezzato. Ma questo mette a repentaglio la tenuta politica e sociale delle classi dominanti europee, che reagiscono in modo differenziato. Mario Monti, Papademos sono stati messi ai loro posti per fare i demolitori del modello, ma non è certo che ci riescano. Dunque questa Europa - che pure è molto lontana dall’essere popolare e democratica - deve essere costretta con le cattive. Esattamente questo è il giudizio di Standard & Poor’s. Niente più astrusi giudizi,  basati su cifre cabalistiche la cui verificabilità è sempre stata problematica. Ora è venuto il tempo delle sentenze, in base alle quali una agenzia di credito statunitense decreta la incapacità politica dei governi e la non affidabilità dei popoli.
Tutti i limiti sono stati superati. Anche quello, che sembrava estremo, di una Banca Centrale Europea che passa, da organismo indipendente dai governi europei e dalla stessa Europa, a istituzione sovranazionale che impone le sue nuove regole a governi formalmente ancora sovrani. Adesso è un’agenzia di credito d’oltre oceano che decreta insolvibile l’intera Europa. Abbiamo tutti i motivi per pensare, ora, che, in caso di opposizione, verranno giocate altre carte, più pesanti, più minacciose, più esplosive. In senso figurato ma anche in senso proprio.  E perché non c’è tempo? Perché gli gnomi di Wall Street-City of London non hanno una ricetta per uscire dal cul di sacco in cui si trovano. E ripropongono l’allargamento, l’enfiagione purulenta del debito planetario. Non perché pensino che questo risolverà il problema, ma perché non hanno altro da offrire. E, pur sapendolo, perseverano. Una specie di coazione a ripetere autodistruttiva, che produrrà l’esplosione. E’ pensabile, anzi è probabile, che intendano  anticiparla con un’altra esplosione.  Con una guerra. Che deve essere più grande delle precedenti, poiché non basterebbe una piccola guerra per bruciare i libri mastri e per costringere tutti, dopo averli derubati e annichiliti, a ricominciare d’accapo, come si è sempre fatto. L’unica differenza è che neppure quel “come si è sempre fatto” è riproducibile.
Ecco dunque perché io ritengo che noi dobbiamo stare molto attenti a non incappare nelle numerose tagliole che si nascondono davanti ai nostri passi. Soprattutto non dimenticando che le tagliole vengono piazzate  non in mezzo alla strada asfaltata - lì le vedrebbero tutti -  ma proprio lungo le scorciatoie. Il che non significa, me ne guarderei bene!, dire che bisogna camminare solo sull’asfalto. Ma stare attenti sì. Le situazioni evolvono a grande velocità, le bocce sono in movimento. Tutte le bocce. L’arte della guerra si deve imparare su un bigliardo nuovo. Sbagliare è facile. Il modo più facile di sbagliare è quello di seguire il percorso di una sola boccia, perché si perdono sicuramente di vista tutte le altre, e poiché le altre sono tante e possono incocciare la nostra boccia mentre meno ce lo aspettiamo.
Ecco perché abbiamo ritenuto che fosse sbagliata la parola d’ordine che ci veniva proposta da alcuni di noi: di proclamare, come l’asse della nostra proposta, la parola d’ordine di “fuori dall’Europa e fuori dall’euro”. Ho già spiegato, nelle mie prese di posizione, che  si tratta di una proposta “fuori tempo”, anticipata, non meditata. Una proposta che  potrebbe crearci problemi seri, ove accadesse, per esempio, che a farci uscire dall’euro fosse qualcuno dei nemici che stiamo combattendo. L’uno o l’altro non importa. Ci troveremmo a dover spiegare perché abbiamo scelto noi una via che potrebbe comportare sconvolgimenti inauditi, imprevedibili, che colpirebbero le grandi masse popolari.
Diamo un’occhiata a quello che succede in Grecia. So bene che questi sconvolgimenti li stanno preparando i nostri nemici, comunque, e che, in ogni caso le masse popolari saranno costrette a subirli, loro in primo luogo. Ma altra cosa è denunciare le loro responsabilità, altra cosa è proclamare una nostra scelta, che viene fatta senza avere misurato le conseguenze. Una scelta esiziale, nel momento in cui nessuno, proprio nessuno, è in grado di misurare tutte le conseguenze. Invitare il governo in carica a proclamare il default, unilateralmente, come una scelta volontaria, senza avere la minima possibilità di influire sui rapporti di forza esistenti, senza avere strumenti per fermare la speculazione internazionale, significherebbe esporsi a ogni attacco esterno senza avere predisposto difese. E l’Italia si troverebbe precisamente in questa situazione. E non sarebbe motivo di tranquillità una uscita verso la sovranità della lira costruita in base al modello ungherese di Viktor Orbàn. Uscita verso il fascismo, cioè.
Significa tutto questo che, per combattere l’offensiva di Wall Street-City, noi dobbiamo sposare la linea di Merkel, Monti, Sarkozy? Me ne guardo bene. Ecco la tagliola che affiora tra l’erba. Noi sappiamo che la crisi viene da lontano e che non è esorcizzabile con le liberalizzazioni, con la disciplina di bilancio, o cambiando il mercato del lavoro fino al punto da cancellare tutte le conquiste di un secolo. Non sarebbe possibile fermarla neanche se fossimo in piena crescita economica. Figurarsi se la possono fermare mentre comincia la più grande recessione che l’Occidente abbia mai conosciuto! Questo lo sappiamo perfettamente, in primo luogo perché siamo giunti ai limiti della crescita e, quindi  -  anche nell’ipotesi che si verifichino, tra alcuni anni,  alcuni spasmi di crescita - non sarà a quella che potremo appendere le nostre speranze e quelle di decine di milioni di lavoratori italiani e alcune centinaia di lavoratori europei, ai quali non siamo meno vicini.
La crescita continuerà altrove, fuori dall’Occidente. Per un pò di tempo, e non potrà fermarla nessuno. Né noi possiamo fare della nostra bandiera - e ci mancherebbe altro! - la parola d’ordine di fermarla, che equivale alla guerra.
Torniamo dunque al nostro dibattito. Ho scritto altrove, spero lo abbiate letto, che io non penso che Alternativa debba scegliere il ruolo della zanzara che dichiara guerra all’elefante. Noi dobbiamo dire le cose che si possono fare. E, quando non si possono fare, dobbiamo scegliere quelle giuste, che sentiamo necessarie per il futuro dell’Uomo. In numerosi altri momenti ho spiegato la mia visione strategica della crisi planetaria. In essa l’Europa è presente come un protagonista insostituibile. Non da sola, ma in un partenariato strategico con la Russia. E non questa Europa, perché questa Europa è diventata uno strumento nelle mani della finanza internazionale, ed è stata dirottata dall’idea di un’Europa federale e sovrana, a quella di una Grande Germania, che è una caricatura dell’Europa. Anche pericolosa. Ma di una Europa abbiamo bisogno, per salvaguardare la pace mondiale.
Allora ritorno alla faccenda delle semplificazioni terminologiche di cui ho parlato all’inizio di questo paragrafo. Se porre al centro della riflessione di Alternativa l’idea di un nuovo processo costituente europeo, che significhi cancellare  gli attuali Trattati di Lisbona e di Maastricht; se ci si pone l’obiettivo di una vasta partecipazione popolare alla creazione di questo nuovo processo costituente, che preveda decisioni solo ed esclusivamente attraverso referendum popolari in tutti i paesi membri; se si chiede la “nazionalizzazione delle grandi banche nazionali, sottraendo loro ogni ruolo nel campo del credito e del controllo finanziario, trasferendo le loro funzioni al credito cooperativo e popolare”; se si restituisce “il controllo e la sovranità monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi ministeri del tesoro pubblico” ; se si decide di mettere fuori legge le agenzie di rating e i paradisi fiscali, bandendoli dall’Europa, e sospendendo le Borse che obbedissero ai loro ordini con l’imputazione di turbativa d’asta a scopo speculativo; se si dicesse ai popoli europei, tutti, che i debiti sovrani vanno “riportati dentro i confini dei vari paesi con l’annullamento di tutti gl’impegni sui titoli che impongono un interesse bancario superiore al 2,5-3% annuo,  e collocandoli tra i propri cittadini con un prestito nazionale solidale” simile a quello che si chiamò il “prestito per la ricostruzione” nell’immediato dopoguerra, il tutto a costi concordati e con la garanzia solidale dell’Unione Europea e della Banca Centrale Europea divenuta anch’essa pubblica: ebbene, se queste sono le idee che noi scegliamo, allora accetterei di essere definito “europeista”. (le citazioni tra virgolette sono tratte da un articolo di Bruno Amoroso, sotto l’egida del Centro Studi Federico Caffè)
Un “europeista” che afferma di volere indietro la sovranità che altri, non noi, hanno delegato all’attuale Unione Europea, e che è stata usata contro gli interessi popolari, contro il dettato della nostra Costituzione. Chiedere la restituzione del maltolto, fino a che l’Europa cessi di essere lo scranno dei banchieri e cominci a corrispondere alle nostre aspettative, non significa essere contro l’Europa. (Come si vede non ho affatto cambiato idea negli ultimi tempi).
Un nuovo processo costituente europeo, che coinvolgesse nel suo formarsi non solo tutta l’area fin qui esclusa dell’ex Jugoslavia, ma soprattutto la Russia e la Turchia, con le loro rispettive aree di influenza, trasformerebbe questa regione del mondo nel più potente agglomerato di idee e di potenziali economici e ambientali mai creato nella storia umana. Un protagonista di pace, dal quale nessuno potrebbe prescindere nella delicatissima e pericolosa transizione che ci apprestiamo a fronteggiare.
E, naturalmente, un’Europa sovrana non potrebbe che essere uno stato libero dalle truppe straniere, cioè libero dalla NATO. Esiste uno schieramento politico, italiano ed europeo, in grado di porsi questi obiettivi? Sappiamo che non esiste, al momento attuale. Ma, in questo campo come in tutti gli altri, le bocce sono in movimento. Ciò che oggi appare lontano o impossibile può diventare realistico e necessario. Anche la transizione appare oggi impossibile, eppure sarà obbligatoria.
Tutto ciò che ho detto non ha nulla di definitivo. E’ un tentativo di approssimazione. Ho detto, e ripeto, che, quando un sistema di equazioni è inferiore al numero delle incognite,  risolverlo è impossibile. Allora non resta che ridurre il numero delle incognite e aumentare il numero delle equazioni. E’ anche questo un compito cruciale di un laboratorio politico molto speciale, qual è il nostro. Questo lo possiamo fare solo insieme, se saremo in molti, se saremo saggi, se saremo solidali, se saremo forti.
Buon lavoro.

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