di Marco Ponti*
Il Fatto Quotidiano
La retorica che va per la
maggiore attualmente in Italia e in Europa, è che per uscire
dalla crisi lo Stato deve investire, soprattutto in grandi
infrastrutture, e in particolare in quelle di trasporto (vedi
linea Torino-Lione, ma di opere simili ce ne sono sul tavolo una
quantità, ognuna con i propri sponsor politici e industriali).
Ora il prof. Prud’homme dell’Università di Lione ha fatto
un’analisi del tutto indiziaria, su un numero limitato di paesi
europei (8) e per un numero limitato di anni (5, dal 2000 al
2004 compresi). Sono anni abbastanza lontani da consentirci di
vedere oggi gli impatti di quella politica, ma non così lontani
da collocarsi in un contesto economico troppo remoto. Ha
rapportato le spesa in investimenti in infrastrutture di
trasporto (strade e ferrovie) con il Pil medio di quei 5 anni
considerati. Cioè ha analizzato quanta parte della loro
ricchezza hanno dedicato proprio ai grandi investimenti. La
limitatezza dei dati e del campione non consente ovviamente
altro che di avanzare dei dubbi, cioè di rendere assai meno
solido il luogo comune che recita “più grandi investimenti in
trasporti = più crescita economica”.
Chi vince, nell’ordine? Primo
viene il Portogallo, poi la Grecia, poi la Spagna, poi l’Italia.
Buona quinta la Francia, mentre Germania, Regno Unito e Svezia
sono i fanalini di coda. Non occorre ricordare come sono andate
le economie di questi Paesi, in particolare Spagna e Grecia, sia
in termini di crescita economica che di debito pubblico. Ma c’è
stato anche un celebre precedente in Giappone: negli anni
Novanta quel paese spese un’enorme quantità di denari pubblici
in infrastrutture per rilanciare la crescita economica, con
risultati trascurabili, se non quello di una spettacolare
crescita del debito (e, sembra, di livelli di corruzione
altrettanto spettacolari). La retorica delle Grandi Opere si
richiama a sproposito a Keynes, grande economista inglese, che
però parlava di stimolare la crescita, in periodi di crisi, con
spesa pubblica che aumentasse rapidamente i consumi e
l’occupazione (“impiegare i disoccupati anche a scavar buche e
riempirle” era il suo noto paradosso). Le Grandi Opere sono
certo spesa pubblica (soprattutto quelle ferroviarie, che, al
contrario di quelle autostradali, gli utenti non pagano), ma
mancano clamorosamente delle altre due caratteristiche: cioè
creano poca occupazione, e non la creano rapidamente. Invece, è
certamente vero che molte di queste abbiano la stessa utilità di
scavar buche e riempirle (si è già citata la Torino-Lione, ma
altre non scherzano). Creano poca occupazione, per ciascun euro
pubblico speso, perché oggi nelle opere civili si fa quasi tutto
a macchina (si pensi per esempio alle “talpe” per scavare
tunnel). Il costo diretto del lavoro non supera il 25% dei costi
totali. Non la creano rapidamente perché i cantieri durano 10
anni, e il “picco” di addetti necessari è spostato in là, quando
si arriva ai lavori di finitura e messa in opera.
Questo approccio al rilancio
economico mediante Grandi Opere, care al governo Berlusconi,
sembrava molto indebolito, soprattutto per la scarsità delle
risorse pubbliche. Tuttavia oggi nuove nubi si affacciano
all’orizzonte, e questa volta arrivano dall’Europa, e sono
fortemente caldeggiate dallo stesso governo Monti, e ovviamente
da banche e grandi costruttori. Si tratta dei Project Bond e
della cosiddetta “golden rule”. I primi sono di fatto garanzie
europee sui prestiti (bond) che i privati possono fare per
realizzare progetti. Ma ovviamente varranno per progetti
europei, pensati prima della crisi, quindi di importo molto
elevato e con orizzonti temporali molto lunghi. Cioè proprio
Grandi Opere, e si ricorda che le Grandi Opere europee non sono
altro che la sommatoria di quelle indicate dai diversi paesi,
cioè per l’Italia quelle care al governo Berlusconi. Le garanzie
europee sui prestiti dei privati, salvo un improbabile
irrigidimento della Commissione europea, significano che se poi
l’opera si rivela scarsamente utile e avrà poco traffico,
l’Europa, cioè ancora le casse pubbliche, pagheranno. Un
ulteriore debito pubblico, mascherato e rimandato nel tempo.
La “golden rule” significa che le
spese per investimenti pubblici in infrastrutture non sarebbero
più conteggiate nel debito nazionale. E il risultato sarebbe del
tutto analogo a quello degli Project Bond: un forte incentivo a
spendere in Grandi Opere di dubbia utilità. L’opposizione
tedesca (e inglese) all’introduzione di questi strumenti, si
badi, era proprio finalizzata a scoraggiare spese pubbliche
clientelari e improduttive, che avrebbero pesato sui deficit per
molti anni.
Angela Merkel ha fatto e continua
a fare molti errori economici, ma in questo caso sembra
difficile non solidarizzare, almeno un po’, con la sua visione
rigorista, che appare certo più difendibile dell’allegro
Keynesianismo di molti altri governi europei, supportati da
interessi che con la crescita non hanno davvero nulla a che
vedere.
*Professore di Economia dei Trasporti al Politecnico di Milano
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