mercoledì 31 agosto 2011

Francuccio Gesualdi e il debito pubblico italiano.

Pubblichiamo questo articolo di Francuccio Gesualdi, presidente del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano, apparso sul sito Pisa notizie, che a nostro avviso ricostruisce correttamente la genesi storica del problema del debito pubblico italiano.

Se volessimo fissare la data in cui in Italia venne sancita la fine della sovranità popolare per dare spazio alla sovranità dei mercati, dovremmo andare al 12 febbraio 1981, un giorno passato alla storia anche come il giorno del divorzio. Non fra coniugi in carne e ossa, ma fra le massime istituzioni finanziarie italiane: la Banca d'Italia e il Ministero del Tesoro. La procedura venne aperta con una lettera di Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, ma Carlo Azelio Ciampi, governatore della Banca , l'aspettava con trepidazione. Dopo tutto, era concordata.

Più che di un ripudio, si trattò di un invito a farsi da parte, la richiesta di sospendere quella che fino a quel giorno era un'abitudine consolidata. Allora, come oggi, la Banca d'Italia fungeva da tesoreria dello Stato e fra le tante funzioni che aveva, c'era anche quella di vendere i buoni emessi dal Tesoro per finanziare il debito pubblico. Ma a quei tempi c'era ancora la lira e la Banca d'Italia emetteva anche moneta, una funzione che svolgeva in stretta collaborazione con il governo. Succedeva, così, che se in occasione di qualche asta per la vendita dei titoli pubblici, non tutto veniva venduto, la Banca d'Italia acquistava la rimanenza tramite la stampa di nuova moneta. Il vantaggio di questa pratica era che il debito dello stato era più nominale che reale. Lo svantaggio era che generava inflazione, un aspetto seccante per tutti, ma a lamentarsi di più era il grande capitale che non sopportava di assistere, impotente, alla svalutazione del proprio denaro. Del resto l'inflazione generata da eccesso di moneta, per i bisogni del pubblico, non era un fenomeno limitato all'Italia e fu così che negli anni 70 si sviluppò, a livello mondiale, una nuova teoria economica, detta monetarista, che chiedeva allo stato di ridurre l'emissione di moneta lasciando che il mercato stabilisse da solo, di quanti e quali mezzi di pagamento avesse bisogno, attraverso la libera attività bancaria e la libera formazione dei tassi di interessi. La richiesta trovò prima accoglienza in Reagan e Thatcher ma poi fece breccia in ogni altro governo e in Italia ebbe la sua prima concretizzazione con quella lettera che Andreatta inviò a Ciampi il 12 febbraio 1981.

Il primo effetto del nuovo corso fu l'aumento dei tassi di interesse. Tolta di mezzo la Banca d'Italia, il mercato attuò subito la politica del ricatto dichiarandosi disponibile ad acquistare i titoli pubblici solo ad alti tassi di interesse che nel giro di un anno raddoppiarono dal 12 al 24%. Tant'è la spesa pubblica per interessi passò dai 20mila miliardi di lire del 1980 ai 127mila miliardi di lire nel 1990. Così si era messo in moto un processo di accumulo del debito provocato non da un aumento di spese pubbliche, ma di spese per interesse.

Il secondo effetto fu un aumento della dipendenza dagli investitori esteri fino a giungere alla situazione odierna che vede il 44% dei titoli pubblici nelle mani di istituti finanziari stranieri. E non della Banca Centrale Europea, che avendo come funzione principale quella di contenere l'inflazione in perfetta logica monetarista, solo di recente ha accettato di acquistare titoli di stato dei paesi europei più esposti. Se andiamo a vedere chi sono gli intermediari internazionali attraverso i quali il Ministero del Tesoro colloca i propri titoli sul mercato mondiale, troviamo le banche americane Bank of America-Merrill Lynch, Citi, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, le inglesi HSBC, Royal Bank of Scotland e Barclays, le svizzere Credit Suisse e UBS, la tedesca Deutsche Bank, la francese BNP Paribas.

Oggi che i mercati hanno portato lo scontro al livello più alto, l'aspetto che fa più paura è il comportamento della politica. In una democrazia normale, parlamento e governo agiscono per la difesa del bene comune e quando si accorgono che qualcuno li sta prendendo per la gola non cedono al ricatto, ma tirano fuori la loro potestà legislativa per ristabilire l'ordine fra chi comanda e chi obbedisce. Non è con le manovre e le manovrine che se ne esce, ma affrontando il toro per le corna, prima di tutto congelando il pagamento di interessi e capitale, tanto per spuntare le armi della speculazione. Poi affrontando i nodi strutturali del debito. Il debito pubblico italiano ha raggiunto l'astronomica cifra di 1900 miliardi di euro, appesantito recentemente di un miliardo di euro per il salvataggio del Portogallo. Ma noi come pensiamo di pagarlo un debito del genere e in quanto tempo? Ha senso ipotecare i prossimi decenni per prestiti che fin dall'inizio sono stati effettuati attraverso semplici scritture contabili e che oggi sono solo un mezzo per consentire ai loro detentori di intascarsi una parte crescente del gettito fiscale? Non dimentichiamo che l'ammontare degli interessi è a 80 miliardi di euro ossia il 25% delle entrate tributarie. Quanto vorremo continuare con una redistribuzione alla rovescia, ossia prendendo a tutti per dare ai più ricchi? Altro che imporre in Costituzione l'obbligo di pareggio in bilancio. Qui bisogna decidere come ci liberiamo del debito accumulato, riducendo il capitale in base alla posizione economica dei soggetti che lo detengono. E poi bisogna ridiscutere a chi attribuiamo potere di emissione di moneta, a chi facciamo finanziare le esigenze di cassa dei governi, come limitiamo la speculazione finanziaria. Serve tornare a fare politica alta e se i parlamentari si mostrano inadeguati, per paura o condizionamento ideologico, allora devono essere i cittadini ad alzare la voce affermando, una volta per tutte, che la sovranità appartiene al popolo, non ai mercati.


Francuccio Gesualdi


Link all'originale: http://www.pisanotizie.it/news/rubrica_20110823_intervento_francuccio_gesualdi_debito_internazionale.html

giovedì 4 agosto 2011

In memoria di Massimo Bontempelli

Scrivere, oggi, una nota in ricordo di Massimo Bontempelli mi è possibile soltanto perché sono ancora in quella sorta di limbo emotivo che da un lato consente di registrare mentalmente l’incredibile notizia della sua scomparsa, dall’altro non consente ancora, per quanto mi riguarda, di cogliere per intero la smisurata voragine che mi si è aperta dentro. Parlare con distacco della sua vita mi è impossibile, perché la sua vita è stata anche la mia.

Trent’anni fa, quando in questo Paese si facevano ancora i concorsi pubblici per accedere alla professione insegnante, era necessario studiare e approfondire i contenuti di esame. Conobbi Massimo in occasione di una serie di lezioni da lui tenute a questo scopo. Mi riconosco un merito: dopo poche lezioni compresi subito di trovarmi di fronte a un personaggio eccezionale di cui intuivo una profondità di pensiero che corrispondeva a quello che con passione cercavo nella filosofia. Da quel momento nacque un sodalizio culturale che avrebbe costituito uno degli assi portanti della mia esistenza, non solo professionale.

Le sue analisi storiche, filosofiche, sociali, anche nelle loro punte di massima astrazione, finiscono sempre per dare fondamento teorico a un impegno politico teso ad affermare il valore irrinunciabile della giustizia. Massimo ha scritto pagine e opere memorabili su questo e su tanti altri temi, e fatico a contenere la mia indignazione nel vedere come i suoi scritti siano stati colpevolmente ignorati dai circuiti ufficiali della cultura. Ma quegli scritti sono lì e devono essere raccolti, ordinati, letti e discussi per rendersi conto del posto che Massimo deve occupare nel panorama della cultura italiana, e per rendersi conto di come in un mondo di intellettuali di cartapesta esistano ancora potenti testimonianze di rigore culturale, di onestà e amore della verità. E forse è proprio questo che rendeva Massimo un intellettuale scomodo, ma scomodo davvero, temuto dagli apparati: perché ci si trovava di fronte ad un’intelligenza straordinaria non disponibile ad essere piegata ad alcun interesse particolare, perché Massimo quell’intelligenza l’ha messa al servizio dell’essenza della filosofia, cioè dell’amore per la verità e quindi dell’amore per la giustizia, al di fuori di qualsiasi convenienza, al di fuori di qualsiasi appartenenza politico-identitaria. In trent’anni mai una volta che abbia ceduto di un millimetro quando in gioco c’era il valore della coerenza intellettuale. In trent’anni mai una volta che lo abbia visto cedere anche lontanamente alla malattia del narcisimo; mai una volta che abbia privilegiato la convenienza, spesso anche strameritata, all’amicizia e al valore dei rapporti umani. E poi, soprattutto, ha commesso un reato oggi insopportabile: nessuno scarto tra le sue idee scritte e la sua vita pratica. Un intellettuale con le sue doti avrebbe potuto anche senza grandi compromessi occupare posti di privilegio e cattedre importanti. Massimo Bontempelli ha dato tanto, tantissimo, a chiunque gli si avvicinasse con desiderio di conoscenza, in una misura che è difficile poter anche immaginare. Ci ha insegnato con la semplicità della sua vita, con la sua incredibile disponibilità, con la sua umanità che davvero un altro mondo è possibile. Ciascuno di noi, in coscienza, se vuole ricordare Massimo, rifletta sul valore di questo suo insegnamento.


Fabio Bentivoglio