sabato 8 ottobre 2011

Giulietto Chiesa: "Imparare a informarsi per uscire dalla crisi".

Vi proponiamo il resoconto dell'intervento di Giulietto Chiesa, tenuto venerdì in occasione del Festival "Un Futuro Migliore", di cui vi avevamo dato notizia. Il resoconto è apparso sul sito web del quotidiano indipendente Pisa notizie:


Presso l’aula Magna della Facoltà di Scienze nel pomeriggio di ieri (venerdì 7 ottobre) Giulietto Chiesa, giornalista ed ex corrispondente da Mosca della Rai, ha parlato di informazione e di come quest'ultima stia cambiando con l’utilizzo di internet e delle nuove tecnologie digitali nell'ambito del festival "Un Futuro Migliore", organizzato dall'Associazione Creta di Pisa.

Lo hanno preceduto e poi seguito, nell'ordine, Pino Strano della Rete dei cittadini ed Enrico Santus della rivista universitaria "Aeolo", che hanno illustrato al pubblico presente due esempi concreti di informazione nata dal basso.

Chiesa ha aperto il suo intervento andando subito al cuore della questione: "Il centro del potere mondiale è in mano a chi controlla l'informazione. Come dire, 'chi tocca i fili muore' per chiunque volesse ledere con la sua libera iniziativa questo assunto. Ma il punto è determinante e riguarda la sopravvivenza stessa di coloro che vivranno in questo mondo nei prossimi 25 anni".

"Siamo gli abitanti - ha poi specificato - di un pianeta in cui molti credono di vivere nella realtà, e invece vivono nella virtualità, ovvero in Matrix".

Il discorso, secondo Chiesa, riguarda l'esercizio stesso della democrazia, per il quale l'informazione dovrebbe rappresentare un riferimento continuo: "La stragrande maggioranza del Paese non sa nulla di quello che sta accadendo. Non ci potrà mai essere democrazia, se coloro che la devono esercitare sono ignari del luogo dove vivono. Dunque, la prima domanda alla quale dobbiamo rispondere è: dove viviamo?".

"Da cittadini, nel corso di mezzo secolo - ha spiegato così Chiesa - siamo stati trasformati in consumatori, comprati e venduti tutti i giorni. Noi siamo 'contatto televisivo umano' e come tali veniamo acquistati a pacchetti".

La questione, secondo il giornalista, non riguarda solo la condizione dei cittadini, ma è riconducibile a un quadro ben più ampio che ha le sue origini nella seconda metà del Ventesimo Secolo, quando il capitalismo mondiale ha eretto una serie di strategie di difesa contro le forze a esso antagoniste: "Tutto è stato calcolato, programmato, realizzato: andate a leggere il "Memorandum Powell" del 1971 (dove l'avvocato della Camera del Commercio degli Stati Uniti sintetizza in poche pagine l’origine dell’attacco al Sistema della Libera Impresa e propone una serie di soluzioni da attuare, ndr.), lì c'è già scritta ogni cosa. Scoprirete così che il programma di conquista rivolto dalla 'libera impresa' all'informazione si è del tutto realizzato. L'essere umano da 'homo legens' è stato trasformato in 'homo videns' e per uscire da questa condizione l'unica salvezza è acquisire consapevolezza, imparare a informarsi".

Da qui, dunque, una prima deduzione: "La rete non è il luogo della sapienza. Piuttosto è uno spazio dove si trovano enormi quantità d'informazioni, ma senza alcuna qualità 'reale'. La rete infatti non insegna a studiare, non ha in sé gli strumenti per insegnare la scelta, il metodo".

E, allo stesso tempo, il bisogno di fare chiarezza rispetto a certi "pericolosi luoghi comuni": "Bisogna liberarsi da una serie di illusioni: le tecnologie non renderanno mai l'uomo libero, perché esse hanno dei padroni e questi le usano secondo i loro interessi. Internet, in sintesi, è una 'struttura proprietaria'. Quando si dice che internet è 'uno spazio di libertà' si commette un errore politico".

Poi, l'analisi di Chiesa si sposta sulla fase attuale: "Siamo in un momento di transizione. La televisione si sta trasferendo nella rete. Lo strumento di controllo di massa per eccellenza sta traslocando armi e bagagli sui nostri computer".

In chiusura, Giulietto Chiesa concentra la sua attenzione sui movimenti di contestazione che a livello mondiale stanno portando nelle piazze la loro voce di dissenso verso la crisi che attanaglia le loro esistenze, anche in riferimento al prossimo appuntamento romano del 15 ottobre prossimo: "Ci sono le avvisaglie di primi sintomi di risveglio, soprattutto da parte di chi ha detto: 'noi non paghiamo il debito'. E perché lo ha detto? Perché ha preso coscienza di quanto sta accadendo alla nostra nazione e al mondo intero. La recessione avanza inesorabile. Da parte nostra, molti di noi sanno solo che c'è questo enorme debito da pagare; ma come ne possono discutere se non ne conoscono la causa, la composizione, le conseguenze? Solo sapendo si può decidere della propria vita. Ed è per questo che chi sa, ha potuto dire con consapevolezza: 'io non pago'. Sono le persone che in virtù del loro 'sapere' potranno riaprire il conflitto sociale, in risposta a una crisi che, a confronto, quella del '29 sembrerà uno scherzo da bambini".

Qui trovate l'originale.

venerdì 7 ottobre 2011

Ragazzi che tengono testa agli adulti

Dal Corriere Fiorentino:

Ci sono andati giù belli pesanti. Non hanno usato tanti eufemismi né perifrasi. Dritti al bersaglio, senza troppi giri di parole. Schietti e passionari, diretti e sfrontati.

Un gruppo di presidi fiorentini, noti ormai come «i diciotto», ha scritto una lettera a tutti gli studenti affinché si astengano quest’anno dalla reiterata, abusata, scaduta e ormai desemantizzata occupazione delle scuole. E un collettivo che raggruppa gli iscritti a cinque scuole superiori di Pontedera ha risposto per le rime. Ma voi dove eravate — hanno chiesto ai diciotto dirigenti firmatari — quando a poco a poco la scuola veniva scippata, derubata, quando a poco a poco tagliavano i bilanci, le ore, i professori, i banchi, la carta, le iniziative? Voi dove eravate mentre aumentavano le spese militari, le spese per la politica, le spese per le scuole private, per i privilegi, per le caste? Dove eravate quando si precarizzava il lavoro nel nome del libero mercato e della concorrenza, quando i vostri diplomati non sapevano dove sbattere la testa per trovare un lavoro? Dove eravate quando la cultura, che noi difendiamo, era calpestata, derisa, ridicolizzata da grandi fratelli e idiozie televisive, quando l’informazione si faceva sempre più disinformazione di regime?
Forse dietro scrivanie ad applicare circolari contraddittorie al buon senso, contrarie a chi vuol difendere il diritto di una scuola pubblica di tutti e per tutti. La vostra generazione ci consegna un Paese sull’orlo di un abisso economico, pieno di privilegi e di marciume, una mignottocrazia dove la cultura, quella che noi vogliamo difendere, ha meno valore di un calciatore panchinaro del Frosinone o di una velina semiscoperta di un programma in tarda serata. Hai capito, gli studenti. Ci sono andati giù belli pesanti. Non hanno usato tanti eufemismi né perifrasi. Dritti al bersaglio, senza troppi giri di parole. Schietti e passionari, diretti e un po’ sfrontati, come sanno esserlo solo i ragazzi, quando hanno qualcosa da dire e osano dirlo. Di più: osano metterlo nero su bianco. Mi piacciono i ragazzi quando tengono testa agli adulti con argomentazioni sensate. Mi piacciono quando non limitano la loro protesta all’occupazione abusiva sgraziata e irrispettosa di uno spazio destinato a tutti, ma vanno oltre e scelgono la strada migliore da percorrere: la strada della parola. Come sono belle, le parole. Come riempiono una testa, una stanza, una città, tutto il mondo.
Come sono potenti, specialmente quando sono scritte bene, quando rispettano le regole della grammatica e non trascurano la punteggiatura. Quando insieme ai contenuti governano anche la forma. Quando osano coniare neologismi perché l’idea sia resa meglio. Questo devono fare, gli studenti: scrivere il proprio sdegno, raccontare il proprio disgusto, urlare sulla pagina la delusione di dover assistere alla vanificazione pomeridiana serale e notturna di tutto quello che la scuola insegna loro ogni mattina. Non devono sprecare l’occasione barricandosi ottusamente dentro un edificio che non appartiene a loro e trasformandolo in una birreria fatiscente e sudicia. Non devono sprecare il loro tempo (che è tanto prezioso proprio perché tanto poco) a dare la peggiore immagine di se stessi. Devono pretendere attenzione e farsi ascoltare, quando hanno parole intelligenti da dire.


Antonella Landi

L'originale lo trovate qui.

giovedì 6 ottobre 2011

1° Festival del Futuro Migliore, intervento di Giulietto Chiesa


Venerdì 7 ottobre, a partire dalle 15:30 presso l'Aula Magna della Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali di Pisa, si terrà un incontro pubblico con Giulietto Chiesa, Presidente di Alternativa, che parlerà di informazione e di come sta cambiando con l’utilizzo di internet e delle nuove tecnologie digitali.

giovedì 29 settembre 2011

"Libia, un'altra guerra umanitaria." Incontro pubblico con Danilo Zolo

Firenze

Venerdì 30 settembre, ore 21.00

piazza dei Ciompi 11 - sala Arci


Il Comitato per la difesa

della Costituzione di Firenze


incontro pubblico con

Danilo Zolo


introduce il dibattito

Alberto Cacopardo


Libia, un'altra guerra umanitaria

i diritti umani e l'ingerenza armata


La risoluzione n. 1973 dell'ONU autorizzava la difesa dei civili. Cinque mesi di bombardamenti NATO hanno rispettato la Carta dell'ONU e la nostra Costituzione? Le lotte armate tribali hanno distrutto il regime di Gheddafi, ma a quale prezzo? Quale regime potrà costituirsi in Libia? Che ruolo ha il diritto internazionale nell'azione degli Stati più forti?

mercoledì 28 settembre 2011

Alternativa, ecco la bozza del programma politico.

Il testo che segue rappresenta una prima proposta di programma politico ed ha lo scopo di aprire il confronto con quanti si riconoscono in Alternativa e con quanti cominciano a porsi il problema di salvare se stessi ed il paese dalla crisi. Non è pertanto un documento chiuso, ma una bozza da discutere, in vista della prossima assemblea nazionale.






Il nostro tempo è caratterizzato dall’intreccio di tre grandi crisi. Crisi epocali e senza precedenti. Tutte queste crisi, in vario modo, stanno arrivando a un punto di rottura. Tale situazione rende indispensabile la transizione ad una diversa organizzazione sociale, politica ed economica.La prima, cruciale, crisi che abbiamo di fronte è quella economica, che nel 2007-08 si è resa evidente attraverso la crisi finanziaria, ed è diventata, oggi in Europa, crisi dei debiti sovrani. Non è una crisi ciclica. La seconda riguarda l’egemonia degli USA, il cui potere imperiale appare avviato verso un declino lento ma probabilmente irreversibile. A queste va aggiunta la crisi ecologica che segnala l’ormai avvenuto raggiungimento dei “limiti della crescita” e mette in questione i fondamenti stessi dell’organizzazione economica e produttiva mondiale e la subordinazione dei rapporti sociali, cioè dei rapporti che plasmano le nostre vite, alla valorizzazione infinita del capitale. Il picco del petrolio è stato raggiunto e la crisi energetica è ormai aperta, rendendo ancora più decisivo il controllo delle riserve di combustibili fossili. Lo sviluppo demografico mondiale ha raggiunto i 7 miliardi di abitanti e tutto dice che a questi tassi di crescita, e con il pianeta dominato dal sistema capitalista che porta ad accentrare sempre di più la ricchezza verso pochi individui, si apriranno drammatici problemi di sopravvivenza per centinaia di milioni di persone. L’Onu prevede movimenti migratori di mezzo miliardo di persone nel caso in cui non siano scongiurati i collassi interconnessi dovuti alla crisi dell’acqua, dell’alimentazione, dell’energia, del clima.
Tutte queste crisi sono infatti interconnesse e non presentano un andamento lineare che consenta di prevedere con precisione quando e come i collassi avverranno. La convergenza di queste crisi si colloca, con ogni evidenza, all’interno della prima metà del XXI secolo. Il modo in cui si manifestano oggi queste crisi è la conseguenza del modo in cui il sistema capitalistico ha reagito alla fine del periodo di sviluppo impetuoso del secondo dopoguerra, sopravvenuta fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta del Novecento. In quel momento nel mondo capitalistico sono sorte gravi difficoltà di realizzazione dei profitti. Ciò ha spinto il sistema da una parte ad occupare spazi ecologici e sociali sempre maggiori e dall’altro a spostare progressivamente nella finanza i processi di valorizzazione.
L’intreccio di queste tre crisi rende urgente, come abbiamo detto, la transizione ad una diversa società, ma rende anche questa transizione delicatissima, difficile da gestire e costellata di pericoli. La prospettiva che abbiamo di fronte è quella di una gravissima crisi di civiltà, con un peggioramento generale della vita e la drastica perdita dei diritti che i ceti medi e subalterni avevano conquistato negli ultimi due secoli.
In primo luogo è evidente a tutti che la crisi economica porta con sé disoccupazione, povertà, distruzione dei servizi sociali.
In secondo luogo, la crisi di egemonia degli USA è foriera di gravi rischi di guerra. Lo squilibrio militare che si è determinato negli ultimi 50 anni, con la schiacciante supremazia americana, rende irresistibile la tentazione della guerra come mezzo per risolvere una o più di queste crisi.
Infine, sono evidenti i pericoli indotti dalla crisi ecologica e ciò impone di mutare drasticamente il nostro modo di produrre, consumare, vivere.
Per fronteggiare questa crisi, e per far sì che la transizione avvenga nella direzione di una società più giusta, più umana, più solidale e più serena dell’attuale, occorre mettere in campo una eccezionale iniziativa politica, radicata in una impostazione ideale che sia all’altezza dei problemi che abbiamo di fronte.
I punti centrali di una transizione di questo tipo sono la riduzione della sfera della produzione mercantile (tramite per esempio il ricorso a scambi non mercantili di beni e servizi, gestiti localmente dalle varie comunità, all’intervento pubblico, all’auto-produzione quando possibile), e la forte riduzione del fabbisogno energetico, tale da consentire che esso possa gradualmente arrivare ad essere interamente soddisfatto dalle fonti rinnovabili. Indichiamo ciò col termine “decrescita”. Decrescita significa abbandono dell’obbligo alla crescita, cui è vincolato il nostro sistema economico, e quindi abbandono dell’obbligo ad un consumo sempre crescente di merci, energia, territorio.
Condizione fondamentale per la decrescita è la diminuzione della quantità di lavoro svolto da ciascuno nella sfera mercantile (salariato o autonomo).
Nell’economia della decrescita è lo Stato che crea le condizioni perché tutti abbiano una occupazione e possano lavorare molto meno di adesso, favorendo l’innalzamento complessivo della qualità della vita (beni comuni, tempo libero, cultura, benessere relazionale, armonia fra uomo e ambiente naturale).
Un altro concetto fondamentale per guidare politicamente una transizione verso una civiltà più umana è il superamento della contrapposizione tra destra e sinistra. Ciò non significa una confusione di valori, né significa cambiare il giudizio storico su ciò che hanno significato fascismo e nazismo, e sul decisivo valore di civiltà che ha avuto la lotta antifascista negli anni Trenta e Quaranta. Significa piuttosto rendersi conto che oggi l’opposizione di destra e sinistra è ormai del tutto interna a quel mondo che sta entrando in crisi irreversibile. I ceti politici di destra e sinistra propongono versioni leggermente diverse delle stesse ricette politiche e sociali, incentrate sulla crescita economica, e destinate ad essere travolte dalla dinamica delle crisi indicate all’inizio. L’ottica della decrescita è quindi del tutto esterna all’opposizione di destra e sinistra.
Occorre inoltre ribadire la più totale opposizione alle guerre di aggressione imperialistica cui abbiamo assistito in questi anni. In una fase di crisi come l’attuale la guerra è un pericolo concreto. In particolare, gli USA si trovano oggi nella singolare posizione di aver perso la supremazia economica indiscussa (pur restando ovviamente una delle principali potenze economiche) ma di conservare una assoluta supremazia militare. La politica internazionale di questi ultimi anni può essere facilmente compresa alla luce del tentativo degli USA di puntellare con la forza militare la propria declinante egemonia. La guerre imperiali degli USA, oltre a creare distruzioni e lutti, sono fatte allo scopo di sostenere il sistema economico e sociale che ci sta portando al disastro. Il loro scopo non è mai “umanitario”. L’opposizione ad esse deve essere netta e intransigente, quale che sia la modalità con cui queste guerre sono offerte all’opinione pubblica mondiale, e quali che siano le caratteristiche dei regimi che reggono gli Stati sotto potenziale attacco. Una forza politica che voglia indirizzare l’inevitabile transizione verso una società più giusta deve porre al centro della sua azione la costruzione di un sistema mediatico democratico, pluralistico, non manipolatorio. Milioni di persone, oggi, non conoscono quasi nulla di ciò che realmente accade, e quindi non possono liberamente orientare le loro scelte. Senza informazione e comunicazione democratica non può esserci democrazia. L’informazione, al pari del lavoro e del territorio naturale, è un bene comune che va tutelato e difeso da ogni condizionamento da parte delle forze economiche o politiche. L’informazione e la comunicazione, dato il loro ruolo culturale e formativo determinante in una qualunque transizione, debbono essere sottratte alle logiche del mercato ed essere tutelate, finanziate con l’intervento pubblico e controllate dai cittadini.
In Italia, le linee di un’azione politica di civiltà sono prefigurate e comprese nei principi e nei valori della Costituzione, che deve essere finalmente applicata. Alla realizzazione della Costituzione occorre affiancare la costruzione di una democrazia pienamente partecipativa. I processi decisionali devono essere svincolati da logiche mercantili e aperti al coinvolgimento diretto dei cittadini.
A partire da questi concetti fondamentali, Alternativa propone i seguenti punti programmatici come base del programma di una nuova forza politica.






Qui potete trovare l'intero documento in pdf.

mercoledì 31 agosto 2011

Francuccio Gesualdi e il debito pubblico italiano.

Pubblichiamo questo articolo di Francuccio Gesualdi, presidente del Centro Nuovo Modello di Sviluppo di Vecchiano, apparso sul sito Pisa notizie, che a nostro avviso ricostruisce correttamente la genesi storica del problema del debito pubblico italiano.

Se volessimo fissare la data in cui in Italia venne sancita la fine della sovranità popolare per dare spazio alla sovranità dei mercati, dovremmo andare al 12 febbraio 1981, un giorno passato alla storia anche come il giorno del divorzio. Non fra coniugi in carne e ossa, ma fra le massime istituzioni finanziarie italiane: la Banca d'Italia e il Ministero del Tesoro. La procedura venne aperta con una lettera di Beniamino Andreatta, ministro del Tesoro, ma Carlo Azelio Ciampi, governatore della Banca , l'aspettava con trepidazione. Dopo tutto, era concordata.

Più che di un ripudio, si trattò di un invito a farsi da parte, la richiesta di sospendere quella che fino a quel giorno era un'abitudine consolidata. Allora, come oggi, la Banca d'Italia fungeva da tesoreria dello Stato e fra le tante funzioni che aveva, c'era anche quella di vendere i buoni emessi dal Tesoro per finanziare il debito pubblico. Ma a quei tempi c'era ancora la lira e la Banca d'Italia emetteva anche moneta, una funzione che svolgeva in stretta collaborazione con il governo. Succedeva, così, che se in occasione di qualche asta per la vendita dei titoli pubblici, non tutto veniva venduto, la Banca d'Italia acquistava la rimanenza tramite la stampa di nuova moneta. Il vantaggio di questa pratica era che il debito dello stato era più nominale che reale. Lo svantaggio era che generava inflazione, un aspetto seccante per tutti, ma a lamentarsi di più era il grande capitale che non sopportava di assistere, impotente, alla svalutazione del proprio denaro. Del resto l'inflazione generata da eccesso di moneta, per i bisogni del pubblico, non era un fenomeno limitato all'Italia e fu così che negli anni 70 si sviluppò, a livello mondiale, una nuova teoria economica, detta monetarista, che chiedeva allo stato di ridurre l'emissione di moneta lasciando che il mercato stabilisse da solo, di quanti e quali mezzi di pagamento avesse bisogno, attraverso la libera attività bancaria e la libera formazione dei tassi di interessi. La richiesta trovò prima accoglienza in Reagan e Thatcher ma poi fece breccia in ogni altro governo e in Italia ebbe la sua prima concretizzazione con quella lettera che Andreatta inviò a Ciampi il 12 febbraio 1981.

Il primo effetto del nuovo corso fu l'aumento dei tassi di interesse. Tolta di mezzo la Banca d'Italia, il mercato attuò subito la politica del ricatto dichiarandosi disponibile ad acquistare i titoli pubblici solo ad alti tassi di interesse che nel giro di un anno raddoppiarono dal 12 al 24%. Tant'è la spesa pubblica per interessi passò dai 20mila miliardi di lire del 1980 ai 127mila miliardi di lire nel 1990. Così si era messo in moto un processo di accumulo del debito provocato non da un aumento di spese pubbliche, ma di spese per interesse.

Il secondo effetto fu un aumento della dipendenza dagli investitori esteri fino a giungere alla situazione odierna che vede il 44% dei titoli pubblici nelle mani di istituti finanziari stranieri. E non della Banca Centrale Europea, che avendo come funzione principale quella di contenere l'inflazione in perfetta logica monetarista, solo di recente ha accettato di acquistare titoli di stato dei paesi europei più esposti. Se andiamo a vedere chi sono gli intermediari internazionali attraverso i quali il Ministero del Tesoro colloca i propri titoli sul mercato mondiale, troviamo le banche americane Bank of America-Merrill Lynch, Citi, Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, le inglesi HSBC, Royal Bank of Scotland e Barclays, le svizzere Credit Suisse e UBS, la tedesca Deutsche Bank, la francese BNP Paribas.

Oggi che i mercati hanno portato lo scontro al livello più alto, l'aspetto che fa più paura è il comportamento della politica. In una democrazia normale, parlamento e governo agiscono per la difesa del bene comune e quando si accorgono che qualcuno li sta prendendo per la gola non cedono al ricatto, ma tirano fuori la loro potestà legislativa per ristabilire l'ordine fra chi comanda e chi obbedisce. Non è con le manovre e le manovrine che se ne esce, ma affrontando il toro per le corna, prima di tutto congelando il pagamento di interessi e capitale, tanto per spuntare le armi della speculazione. Poi affrontando i nodi strutturali del debito. Il debito pubblico italiano ha raggiunto l'astronomica cifra di 1900 miliardi di euro, appesantito recentemente di un miliardo di euro per il salvataggio del Portogallo. Ma noi come pensiamo di pagarlo un debito del genere e in quanto tempo? Ha senso ipotecare i prossimi decenni per prestiti che fin dall'inizio sono stati effettuati attraverso semplici scritture contabili e che oggi sono solo un mezzo per consentire ai loro detentori di intascarsi una parte crescente del gettito fiscale? Non dimentichiamo che l'ammontare degli interessi è a 80 miliardi di euro ossia il 25% delle entrate tributarie. Quanto vorremo continuare con una redistribuzione alla rovescia, ossia prendendo a tutti per dare ai più ricchi? Altro che imporre in Costituzione l'obbligo di pareggio in bilancio. Qui bisogna decidere come ci liberiamo del debito accumulato, riducendo il capitale in base alla posizione economica dei soggetti che lo detengono. E poi bisogna ridiscutere a chi attribuiamo potere di emissione di moneta, a chi facciamo finanziare le esigenze di cassa dei governi, come limitiamo la speculazione finanziaria. Serve tornare a fare politica alta e se i parlamentari si mostrano inadeguati, per paura o condizionamento ideologico, allora devono essere i cittadini ad alzare la voce affermando, una volta per tutte, che la sovranità appartiene al popolo, non ai mercati.


Francuccio Gesualdi


Link all'originale: http://www.pisanotizie.it/news/rubrica_20110823_intervento_francuccio_gesualdi_debito_internazionale.html

giovedì 4 agosto 2011

In memoria di Massimo Bontempelli

Scrivere, oggi, una nota in ricordo di Massimo Bontempelli mi è possibile soltanto perché sono ancora in quella sorta di limbo emotivo che da un lato consente di registrare mentalmente l’incredibile notizia della sua scomparsa, dall’altro non consente ancora, per quanto mi riguarda, di cogliere per intero la smisurata voragine che mi si è aperta dentro. Parlare con distacco della sua vita mi è impossibile, perché la sua vita è stata anche la mia.

Trent’anni fa, quando in questo Paese si facevano ancora i concorsi pubblici per accedere alla professione insegnante, era necessario studiare e approfondire i contenuti di esame. Conobbi Massimo in occasione di una serie di lezioni da lui tenute a questo scopo. Mi riconosco un merito: dopo poche lezioni compresi subito di trovarmi di fronte a un personaggio eccezionale di cui intuivo una profondità di pensiero che corrispondeva a quello che con passione cercavo nella filosofia. Da quel momento nacque un sodalizio culturale che avrebbe costituito uno degli assi portanti della mia esistenza, non solo professionale.

Le sue analisi storiche, filosofiche, sociali, anche nelle loro punte di massima astrazione, finiscono sempre per dare fondamento teorico a un impegno politico teso ad affermare il valore irrinunciabile della giustizia. Massimo ha scritto pagine e opere memorabili su questo e su tanti altri temi, e fatico a contenere la mia indignazione nel vedere come i suoi scritti siano stati colpevolmente ignorati dai circuiti ufficiali della cultura. Ma quegli scritti sono lì e devono essere raccolti, ordinati, letti e discussi per rendersi conto del posto che Massimo deve occupare nel panorama della cultura italiana, e per rendersi conto di come in un mondo di intellettuali di cartapesta esistano ancora potenti testimonianze di rigore culturale, di onestà e amore della verità. E forse è proprio questo che rendeva Massimo un intellettuale scomodo, ma scomodo davvero, temuto dagli apparati: perché ci si trovava di fronte ad un’intelligenza straordinaria non disponibile ad essere piegata ad alcun interesse particolare, perché Massimo quell’intelligenza l’ha messa al servizio dell’essenza della filosofia, cioè dell’amore per la verità e quindi dell’amore per la giustizia, al di fuori di qualsiasi convenienza, al di fuori di qualsiasi appartenenza politico-identitaria. In trent’anni mai una volta che abbia ceduto di un millimetro quando in gioco c’era il valore della coerenza intellettuale. In trent’anni mai una volta che lo abbia visto cedere anche lontanamente alla malattia del narcisimo; mai una volta che abbia privilegiato la convenienza, spesso anche strameritata, all’amicizia e al valore dei rapporti umani. E poi, soprattutto, ha commesso un reato oggi insopportabile: nessuno scarto tra le sue idee scritte e la sua vita pratica. Un intellettuale con le sue doti avrebbe potuto anche senza grandi compromessi occupare posti di privilegio e cattedre importanti. Massimo Bontempelli ha dato tanto, tantissimo, a chiunque gli si avvicinasse con desiderio di conoscenza, in una misura che è difficile poter anche immaginare. Ci ha insegnato con la semplicità della sua vita, con la sua incredibile disponibilità, con la sua umanità che davvero un altro mondo è possibile. Ciascuno di noi, in coscienza, se vuole ricordare Massimo, rifletta sul valore di questo suo insegnamento.


Fabio Bentivoglio